venerdì 23 dicembre 2011

Padrone mio, te vojo arrecchire...


Pubblicato per l’editrice barese WIP Edizioni, il saggio “Il caporalato nella tarda modernità” di Pietro Alò è un’occasione di dibattito pubblico sulla questione del lavoro sempre più ridotto a merce e sempre più sospinto nella marginalità del lavoro servile e senza diritti.

Il caporalato e il lavoro servile nella crisi della modernità, questa è la tesi da cui ri/partire, guardando al caporalato in terra di Puglia, fenomeno culturalmente radicato, tanto che, persino l’enciclopedia telematica Wikipedia dà un primato originario di questa pratica odiosa, nelle campagne del Meridione alla nostra terra, individuando l'epicentro nella Capitanata e soprattutto nella collina brindisina e in particolare a Villa Castelli, il paese di Pietro Alò.

Un libro e un film



Va ricordato subito che, da senatore della Repubblica, Alò nelle brevissima XII Legislatura si dedicò alla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’odioso fenomeno del caporalato nelle campagne. La pubblicazione, del saggio “Il caporalato nella tarda modernità” - che è una tesi di laurea in sociologia del 2002 - con pre e postfazioni del sociologo Franco Chiarello, dell’antropologa Annamaria Rivera e del segretario regionale della CGIL Giovanni Forte, rende merito e omaggio al lavoro di questo grande testimone delle Lotte pugliesi. La cura della pubblicazione è della Fondazione a lui intitolata (http://www.fondazionepietroalo.com/) che nella mattinata di domenica 19 dicembre nel cinema Etoile di Monopoli l'ha presentata insieme al filmato “La follia degli onesti” della Oz Film sulla vita e l’impegno di questa singolare figura di militante, attivista, politico della sinistra pugliese e meridionale.
Ad memoriam: Pietro scomparve prematuramente il 13 giugno del 2005 a Roma, ancora nel vivo di un impegno che lo vedeva proiettato nel tentativo di analisi e organizzazione del nuovo precariato con il “Centro diritti del lavoro”.


Il caporalato ieri e oggi


La tesi essenziale del lavoro sul caporalato è che il fenomeno lungi dall’essere una forma arcaica di mediazione del lavoro nello sviluppo produttivo nelle campagne diventa nella fase post-fordista della produzione e nella lunga ondata del neo-liberismo quasi un paradigma della “violenta riduzione a merce del bene lavoro e nella totale subordinazione della persona e dei suoi diritti al fatto produttivo”. Le cose sono arrivate a un punto per cui oggi sono i lavoratori stagionali rumeni o polacchi, maghrebini o nigeriani, ad essere coinvolti nel girone infernale del caporalato e nel foggiano è ancora aperta un’inchiesta sulla scomparsa fisica di alcuni di loro.
Mentre a Milano a piazzale Loreto alla prim’alba viene ingaggiata a due o tre euro all’ora per più di dieci ore la manovalanza di clandestinizzati, senza permesso e senza diritti, senza identità e familiari, anche loro sogetti a forme di prepotenza, ricatto, e persino al rischio di scomparsa fisica, occultata nel caso ben lontano dai
luoghi dei cantieri abusivi dove lavorano. Siamo cioè arrivati a un neo-caporalato diffuso che si pone a valle della precarietà cronicizzata e della flessibilizzazione del lavoro a chiamata, intermittente, interinale, a noleggio, che le misure di legge hanno sanzionato frantumando in mille rivoli il mercato del lavoro. Un lavoro ormai servile quando non schiavistico che coinvolge campagne, città metropolitane, comparti della piccola industria, i servizi, il buco nero del “sommerso”. Una “condizione umana” che oltre le figure sociali storiche delle braccianti e raccoglitrici arriva a raggiungere gli ultimi della terra, gli invisibili di Rosarno e del foggiano, delle campagne neretine e del casertano.
Oltre se non ben contigue sono visibili le “vite di scarto” di cui ci parla Bauman.

La ricostruzione storica dei conflitti

Trovo notevole nel lavoro di Alò la ricostruzione storica dei conflitti dal secondo dopoguerra in poi nelle campagne pugliesi, dagli eccidi dei contadini alle lotte per gli elenchi anagrafici, dai picchetti nelle campagne e nei villaggi all’incontro con l’onda del ’68, dalla militanza della nuova sinistra meridionale alla inquietante mutazione della figura del caporale, che da ex bracciante mediatore di braccia e organizzatore capillare al servizio della proprietà agricola diviene prepotente e spesso pericoloso malavitoso, sino al tentativo di “autoregolamentarsi” con forme cooperative di servizio. Se pensiamo che ci furono persino incursioni armate di caporali nella sede della CGIL di Villa Castelli e che ci voleva del buon coraggio a fare picchetti per gli scioperi nelle strade di campagna, comprendiamo come il fondo di questa riflessione è anche nella pratica del conflitto sociale anche aspro. Notevole è anche l’inquadratura teorica dello sviluppo capitalistico nelle campagne e delle forme sociali e giuridiche del lavoro, e ampia l’apertura mentale dell’autore, ben visibile nell’apparato bibliografico di riferimento. Per Alò “il caporalato nasce come esigenza di imprese che nella compressione dei diritti della forza lavoro trovano, se non l’unica, certamente la via più facile per collocare sul mercato i loro prodotti”, e il fenomeno del caporalato “è stato deviante e costituente allo stesso tempo” delle nuove forme di lavoro servile funzionali al neo-liberismo che ha guidato la globalizzazione che appare anche come risposta iper-moderna alla crisi della modernità e che come tale viene rivendicata dai propagandisti del pensiero unico.

Nella “tarda modernità”...

Qui, oltre le tematizzazioni di analisi meridionaliste, giuslavoriste, economiche e storiche, Alò cerca di motivare la sua scelta di definire “tarda modernità” l’epoca successiva alla crisi del moderno. Questa tematizzazione merita una riflessione non metodologica né solo terminologica, perché si tratta di vedere il rapporto costitutivo tra modernità, età dei Lumi, modo di produzione, universalismo e la rottura critica di una “odiernità” che via via dal punto di vista sociologico, ma non solo, è stata definita “modernità riflessiva, o
seconda modernità” (Ulrich Beck), “modernità liquida” (Zygmunt Bauman), “tarda modernità” (Alain Touraine), o molto più diffusamente post-modernità, termine da trattare con le pinze, certamente, ma qui
nettamente rifiutato. Certo è che la crisi della modernità come razionalità, universalismo, produttivismo se non progressismo, è assai evidente e riporta in vita forme vecchie e nuove di trasformazione sociale allarmanti e distruttive, del lavoro, della dignità, del vivente, del pianeta, dei beni comuni, dello spazio pubblico, per non dire della democrazia e del modello sociale del welfare.


Silverio Tomeo

(il Paese nuovo, martedì 21 dicembre 2010:
nel titolo, il verso di una canzone di
Matteo Salvatore)

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