giovedì 22 dicembre 2011

... Ricordando Gino
   
Conobbi Gino nell’autunno del  ’68. Ero arrivata a Locorotondo in ottobre, fresca di movimento studentesco, con alle spalle alcune letture fondamentali - di quelle che ti aprono il cervello, dopo di che niente può essere più come prima- decisa a cominciare a vivere in coerenza con ciò che sentivo di voler essere, una comunista e, anche se non sapevo con chiarezza che cosa significasse (oggi lo so meno di ieri), ero pronta a scoprirlo.
Ero un misto di ostinata timidezza e di ingiustificato orgoglio, poco avvezza alle relazioni umane, con uno strano senso di sradicamento che ancor oggi mi accompagna,  ma mi fu facile prendere contatti con i compagni di Locorotondo, grazie soprattutto alla loro  contagiosa capacità di stare al mondo. Per primo fu  Angelo Caroli che avevo già avuto modo di conoscere a Bari durante le assemblee universitarie,  poi  Dino e Antonio Angelini, che facevano la spola tra Locorotondo e Trento, dove studiavano sociologia, e ancora Dudduzzo, Tonino Mansueto, Enzo  Cervellera, Rosangela, Lucio Piccoli, Matteo, con il suo inquietante cappottone grigio” a due piazze”. Eravamo antifascisti, contro l’autoritarismo, contro la selezione di classe, contro il sistema capitalistico, contro il revisionismo, contro l’ imperialismo americano. Per la rivoluzione. Il richiamo alla già mitica figura del “Che”, e all’idea  di militanza totale che incarnava, ci univa, penso, più come stato d’animo che come progetto politico. Volevamo esserci, cambiare il mondo, convinti che bastasse volerlo.

E credo che proprio per ultimo conobbi Gino.
La sua calma, la sua posatezza mi fecero pensare di lui che fosse più maturo degli anni che in realtà aveva, in un certo senso già risolto. I compagni mi dicevano che, pur idealmente vicino a noi, era iscritto al  Psi  e che aveva dei problemi in famiglia. Mi feci perciò l’idea che fosse un preoccupato padre di figli. Quando gli dissi di queste mie impressioni , si fece una risata a sottolineare quanto lontana fossi dalla sua verità. A fine febbraio del ’69 uscì dal partito Questa decisione colpì molto i compagni, ne galvanizzò alcuni e forse ne spaventò altri perché a quel punto la  faccenda si faceva seria: non si poteva più giocare alla  rivoluzione, bisognava impegnarsi la vita, assumersi responsabilità, organizzarsi, lavorare, lottare…
Nei mesi che seguirono Gino ed io ci vedemmo quasi ogni sera. Parlavamo di tutto, per ore. Dei nostri autori preferiti, di musica, di sport, delle nostre insicurezze, delle nostre aspirazioni.
Intanto nel “gruppo” cresceva la consapevolezza di dover superare il punto di vista del movimento studentesco, di estendere l’ intervento a figure sociali diverse,  di superare il  localismo. Sapemmo dei compagni di Ceglie e della loro inchiesta nelle campagne, ne cogliemmo subito il valore, prendemmo contatti  con loro ed in breve  demmo vita al cldp, primo passo verso quella organizzazione nazionale che, nei nostri progetti, doveva portarci al partito.

Al termine dell’anno scolastico, a fine giugno, dovetti tornare a casa. Prima della partenza, sulla strada della stazione di Locorotondo, trovai Gino che mi aspettava. Quando mi girai per salutarlo, mi accorsi che piangeva. Ero stupita ed imbarazzata e non mi riuscì di dire niente. Prevalse la mia “selvatichezza” e salii sul treno.
Nei due anni successivi, a parte qualche sporadico incontro, mantenemmo contatti epistolari che mi permisero di conoscere meglio la sua onestà intellettuale, il suo non farsi sconti, la portata di ciò che si stava giocando con la scelta del cldp, l’ intensità del suo sentire.

Gino era arrivato alla politica attraverso un vissuto personale di sofferenza fisica e morale. Non aveva ancora compiuto diciassette anni, quando -uso le sue parole- “il dolore entrò nella mia vita ad offendermi e a maturarmi” e con esso la consapevolezza che bisognava ribellarsi, migliorare,cambiare. Infatti, la malattia, i lunghi anni passati in ospedale, il contatto con una umanità sofferente e segregata ne avevano, in un certo senso, forzato il temperamento. Era diventato ordinato, prudente, metodico, tutte caratteristiche che non gli erano abituali, e aveva finito con il trasferire nei tanti interessi che coltivava  l’energia, l’intraprendenza,  il senso dell’avventura, l’azione, la lotta che gli bruciavano dentro e che gli erano negate nella pratica. Si spiegano così la sua passione per gli scacchi (“il dinamismo della scacchiera sostitutiva di tutti i dinamismi perduti,mancati,sognati”) e  per il rugby, uno strano gioco dove” per andare avanti bisogna passare la palla all’indietro”

In quegli anni trovò  nel socialismo libertario  la risposta ai suoi ideali di giustizia e di uguaglianza e pensò  che il modello scandinavo di welfare, con la realizzazione delle “belle riforme”, potesse risolvere i problemi dei poveri e degli ammalati. Ma col tempo finirono col prevalere le sue conclusioni teoriche marxiste-leniniste nelle quali si era sempre riconosciuto e applicò il suo” p tant l’accatém e p mén l vènnim”. Una maniera  colorita e un po’ cinica per dire: tagliamo i ponti col passato, rimettiamoci in gioco,  ricominciamo. Sapendo bene che la vita è una sola e a volte neanche tanto lunga.

Niente era più estraneo a Gino dell’ intellettualismo. Il marxismo era sempre stato per lui ciò che Mao indicava dover essere: uno strumento per l’azione. Non ricordo  nessun atteggiamento di autocompiacimento che lo riguardasse e che lo portasse ad indulgere nella ricerca teorica fine a se stessa o nella polemica dottrinaria. Di certo amava i libri, anche nel loro essere oggetto prezioso. Ne osservava il tipo di carta, di carattere,  di rilegatura;quei libri che nei molti anni di isolamento avevano costituito il suo principale tramite con il mondo e che  fino alla fine hanno contribuito a rendergli più bella la vita . Leggeva e studiava di tutto. Da Hemingway a Gadda, suo ultimo amore. Dai classici del marxismo- leninismo, alla storia del movimento operaio, all’ economia. Per “dare un assetto un po’ meno incasinato” -come diceva lui- alla sua disordinata cultura di autodidatta ( ad avercela!), ma soprattutto perché pensava che fosse  possibile  guardare più lontano soltanto arrampicandosi sulle spalle dei giganti, diversamente ci saremmo ritrovati nani,  forse più liberi ma sicuramente  più smarriti.
Certo, lo studio, la conoscenza teorica consolidavano il suo “odio di classe”(espressione oggi indicibile), ma ciò che li motivava profondamente erano la rabbia e l’indignazione che ogni volta provava di fronte ai crimini del capitalismo. Così ricordava il compagno Arcangelo Lisi ”Un giorno dell’ estate del ’63 eravamo insieme dal barbiere e rimanemmo soli a discutere, seduti sulla poltrona in attesa che questi rientrasse. Si parlava di plusvalore, di merce,ecc. Mi ero accorto però che era distratto, stanco. Tutt’ ad un tratto scoppiò a piangere, a piangere forte, e mi confidò tra le lacrime (qualcuno dovrà pagarle quelle lacrime) che era senza una lira e mancavano ancora una decina di giorni perché gli giungesse il mandato della pensione di 12 mila lire. Poi, asciugandosi quegli occhi terribili e buoni, mi disse:-Scusami,Gino, non dovevo lasciarmi andare. Io almeno ho la casa che ho costruito da me. C’è chi non ha nulla. Scusami:- Io ero sconvolto. Mi vergognavo di essere vivo, di essere un uomo. E rientrò il barbiere. Poi ho atteso sei lunghi anni per raccogliere anche nelle mie mani quelle lacrime che un giorno dovranno colare come lava incandescente su questa società infame. Che fa piangere”

Gino sentiva la responsabilità politica di dare risposte concrete, credibili, a chi viveva sulla propria pelle lo sfruttamento e l’emarginazione, così come aveva consapevolezza dell’enormità dei compiti che ci si era dati:contribuire all’arricchimento dell’analisi, della linea e del programma per la rivoluzione in Italia… sconfiggere il revisionismo… costruire il partito rivoluzionario come avanguardia organizzata del proletariato… Avvertiva la sproporzione tra ciò che eravamo e ciò che avremmo voluto diventare, anche a partire da sé. A riguardo, in una lettera dice:” A proposito di un “sacco di cose”, penso sul serio (lo penso da sempre) che nel cldp si faccia troppo affidamento su di me. E’ una cosa che a volte mi turba. Mi chiedo se sia possibile che non ci siano compagni di un livello più elevato del mio. Ad ogni occasione mi dico: ecco, ora capiranno quel che valgo realmente e mi scaricheranno di qualche compito.”(19/2/71). Ed ancora in un’altra lettera “l’ attività del cldp sta prendendo un andamento davvero buono, sia nelle varie situazioni che nell’iniziativa nazionale. Purtroppo si nota una carenza soggettiva che deve preoccupare i compagni:carenza nell’organizzazione e nel livello di preparazione. C’è bisogno urgente di nuove forze nell’assunzione di responsabilità, altrimenti ci sclerotizzeremo e prima o poi potremmo crollare”(10/2/71).
Nasceva da questo senso di responsabilità la sua esigenza di capire più a fondo la situazione in cui si operava attraverso un’analisi materialista. Ed era questo senso di responsabilità che a volte lo induceva a sottolineare con più forza l’aspetto oggettivo della situazione stessa, esponendolo a critiche di schematismo e di meccanicismo. Che lo facevano incazzare ma neanche più di tanto, se è vero che in una riunione di segreteria rispose a queste critiche sbottando ” e va bun, ji so’ meccanico e vu sit tutt elettricist” .E’ normale che le critiche un po’ lo amareggiassero, ma voleva tenerne conto per correggersi e migliorarsi, se gli riusciva. E soprattutto non scalfivano la stima e l’affetto che nutriva nei confronti dei compagni. Non provava rancore né sentimenti di rivalsa   Non ricordo di avergli mai sentito pronunciare commenti pesanti o giudizi negativi nei confronti di  nessuno, pur sapendo che i “nessuno”  non sempre erano all’altezza del suo stile.

Gino aveva una qualità che col tempo ho scoperto essere rara:sapeva cogliere in tutte/i,  compagne/i e non, l’aspetto migliore, ciò che  li caratterizzava e li rendeva unici, speciali ed insostituibili. E perciò riusciva ad ascoltare senza pregiudizi, senza supponenza, senza irritanti paternalismi; non era accecato dall’ idea  di dover cercare nelle  parole dei compagni l’errore o la deviazione a tutti i costi, per svalutarne il pensiero o per  sminuirne l’operato. Il suo non era liberalismo né carenza di senso critico o peggio ancora assenza di posizioni personali da difendere e far valere, semplicemente ascoltava per  imparare da tutti.

Vivere con Gino era facile, semplice .Benchè ci fossero tutte le ragioni, non mi sono mai sentita “piccola” al suo confronto. Gli ho sempre invidiato, però, la capacità di tenere insieme tutti i suoi interessi, senza che questi togliessero nulla alla priorità della passione  politica, che anzi ne usciva rafforzata, più ricca e motivata.
 Amava di uno stesso amore i ciclamini bianchi col cuore rosso che sua madre curava sul davanzale e gli scritti giovanili di Marx;
King, il cane di famiglia, e il gioco degli scacchi;
I giocatori di carte di Cezanne e la rivoluzione d’ottobre;
 La Norma e le lotte bracciantili. E a proposito della Norma, ricordo che una sera d’inverno,sfidando il freddo e la stanchezza, mi propose di andare ad assistere ad una rappresentazione che ne davano al Petruzzelli. Accettai  volentieri.. Alla fine del primo atto, però, mi addormentai sulla sua spalla. Mi svegliai verso il finale, al suono del gong azionato da Norma che chiamava i Druidi a raccolta  per confessare il suo tradimento. Non so se mi abbia mai perdonato quella defaillance, ma se l’ha fatto, è perché doveva volermi bene davvero.
 Poteva capitargli di essere preoccupato per l’attività politica, per il lavoro, per la salute, ma non permetteva che quei pensieri si trasformassero in malumori o insofferenze, capaci di rovinare  la vita a se stesso e agli altri. Sapeva di non avere tanto tempo davanti a sé e non voleva sprecarlo. Diffidava delle introspezioni psicologiche nelle quali si smarriva; sosteneva con convinzione di non avere l’inconscio e soprattutto di non ricordare di aver attraversato mai periodi di latenza. Non per questo era meno attento ai comportamenti, alle parole ed alle sensibilità di chi gli stava intorno. Lo infastidivano, per esempio, i tentativi ingenui di mia madre di giustificare ai suoi occhi le mie non eccezionali virtù di casalinga. Vi coglieva l’intenzione “inconscia” di svalorizzarmi, e proprio non lo sopportava. Era solidale, leale ed affidabile. Su di lui potevo contare.
 Per sensibilità, per formazione, per scelta gli era estranea la visione maschio-centrica che porta a vivere il ruolo femminile come marginale, subalterno e funzionale al dominio maschile. Gino stimava e rispettava le donne più di quanto le donne, spesso, riescano a fare con se stesse e fra di loro. Sapeva che il patriarcato costituisce  il più solido alleato del capitalismo nell’ oppressione e nello sfruttamento del mondo femminile ed aveva consapevolezza dell’ enorme tributo che le donne hanno pagato e continuano a pagare alla storia dell’umanità, in termini di cancellazione delle loro soggettività. E lo sapeva in quanto uomo e comunista. E come uomo e comunista ne traeva le necessarie conseguenze. Per questo pensava sinceramente che il movimento delle donne potesse svolgere un ruolo fondamentale per la loro emancipazione e liberazione. Credeva- e allora lo credevamo in tante/i- che il marxismo-leninismo potesse costituire uno strumento in più -e non una freno-  per il radicamento e la crescita politica di quel movimento.

Mi rendo conto che, detto così, Gino possa  apparire un improbabile  modello di perfezione,  noioso e stucchevole. Serioso, appunto. Per fortuna aveva anche lui, come tutti, le sue brave contraddizioni che tentava di capire e di risolvere, ma senza giustificarle o fustigarsi se non ci riusciva.  Per esempio amava Debussy e Wagner,  non si spiegava perché ma gli piacevano, e non smise mai di farseli piacere.  A volte parlava di sé con un’ ironia cattiva e divertita nello stesso tempo, che mi gelava.
 Era imprevedibile, proprio nel senso che mi sorprendeva. Con aria tranquilla diceva di aspettarlo per qualche minuto e ritornava, mostrandomi la foto delle quattro- pose-1000lire nelle quali aveva l’espressione che, secondo lui, si ritrovano   i pregiudicati quando vengono arrestati. Lo vedevi serio e compunto, lo pensavi tutto concentrato nell’ascolto di un difficile dibattito congressuale, magari pure preoccupato-e lo era davvero- ed invece, all’ improvviso, guardando furbescamente altrove, accennava quel gesto d’intesa fra noi che rimetteva tutto a posto.
 Con l’ entusiasmo e la curiosità di un bambino raccoglieva e conservava tutto ciò che per strada attirava la sua attenzione:il campanellino di un collare per gatti, la cartuccia rossa che portava le sue iniziali, un catarifrangente, una pallina di piombo ovale che ricordava il pallone da rugby. Quest’ultima  trovata nelle strade di Tarbes, nell’estate del ’77,  dove ci era capitato di assistere ad una partita amichevole tra la nazionale francese e la squadra locale,  in occasione dell’ l’addio al rugby  di un grande giocatore del quale però ho dimenticato il nome. Ed è dolorosamente strano pensare che quegli oggetti da nulla, rifiutati, dimenticati e da lui recuperati, gli siano sopravvissuti.

Gino, infatti, aveva una piccola mania: usava strappare puntigliosamente, metodicamente tutto ciò che scriveva,  dalla scaletta dell’ intervento al testo della relazione, dalla bozza dell’articolo  a quella del documento. Diceva di farlo per una questione di vigilanza. A me tutta quella vigilanza sembrava esagerata e un giorno glielo dissi. Mi rispose che sì, voleva cancellare le sue tracce, perchè niente rimanesse di lui che potesse ricordarlo. Perché nessuno dovesse soffrire, ritrovandolo nelle  sue cose. Forse non si sbagliava.


Dopo l’estate del  ’77 la sua salute cominciò a peggiorare, niente di sostanzialmente nuovo rispetto a quelle che erano le sue condizioni abituali, soltanto piccoli segnali sempre più frequenti. Lo invitavo ripetutamente a sottoporsi a degli accertamenti, ma non  voleva o non poteva assentarsi dal lavoro e, soprattutto, rifiutava l’ idea di tornare in ospedale. Infine si convinse e si accordò con il compagno Pisani per un ricovero a Padova che sarebbe avvenuto  il 25 febbraio del 78.
Dei mesi precedenti a quella data, ricordo i suoi improvvisi silenzi, il respiro affannoso, la tosse insistente, quel capodanno, l’ultimo, noi due da soli ad aspettare la mezzanotte con una bottiglietta di spumante, la sua stanchezza quando tornava a casa, gli  strani e oscuri discorsi sul nostro improbabile futuro insieme e l’espressione seria che li accompagnava.
Poi la decisione di rimanere a casa, ed io con lui, in attesa di quel 25 febbraio. La prenotazione delle cuccette. Il suo pallore e la testa che gli girava. Il medico che gli guardava le unghie violacee e gli ordinava di non partire e semmai di ricoverarsi a Bari. Il suo rifiuto perchè era il fine settimana e conosceva il funzionamento degli ospedali. La decisione  comunque di raggiungere Padova. E  quella sera il suo “Cioa ma’ detto per salutare la madre al telefono, scuotendo la testa perché non le dicessi niente, per non farla soffrire. Alle 20,30 la  frase assurda, “se passa la notte”. Poi il mio nome perché gli fossi vicina mentre i suoi occhi cambiavano colore

Qualcuno ha detto”Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza”. Sembra roba da niente, ma è tanto. E quel tanto, con Gino, io l’ho vissuto.

Non credo di sbagliarmi di molto se dico che, in quei sette anni passati insieme, eravamo riusciti a realizzare un piccolo frammento  di socialismo, l’utopia di un rapporto alla pari, dove l’altro non è vissuto come un limite al libero manifestarsi della propria individualità, come  il nemico da distruggere, dove volersi bene non è una debolezza e fidarsi dell’altro non è un cedimento ma una scelta di coraggio,dove si può provare ad essere felici senza sentirsi in colpa con il resto del mondo.
Perché penso che, in fondo, a muovere la nostra passione politica di quegli anni fosse soprattutto l’aspirazione a costruire una società senza classi, all’interno della quale si compisse una sorta di salto di qualità nell’ evoluzione della specie umana, così da rendere possibile ad ognuno di trovare le ragioni e le condizioni per la propria personale realizzazione e il delinearsi di quella “ futura umanità” fatta di soggetti eguali perché diversi e perciò più liberi.
Per tutto questo  ritengo che l’incontro di oggi, oltre ad essere un doveroso omaggio nei confronti di Gino, sia nello stesso tempo un doveroso omaggio verso quella parte migliore di noi stessi che, quarant’anni fa, ci vide uniti nel tentativo di costruire un percorso comune.

Marisa Valentini
Locorotondo,   21/02/2009                                             

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