venerdì 23 dicembre 2011

Volantone del Circolo Lenin di Puglia
sulle lotte degli studenti, 1970






Padrone mio, te vojo arrecchire...


Pubblicato per l’editrice barese WIP Edizioni, il saggio “Il caporalato nella tarda modernità” di Pietro Alò è un’occasione di dibattito pubblico sulla questione del lavoro sempre più ridotto a merce e sempre più sospinto nella marginalità del lavoro servile e senza diritti.

Il caporalato e il lavoro servile nella crisi della modernità, questa è la tesi da cui ri/partire, guardando al caporalato in terra di Puglia, fenomeno culturalmente radicato, tanto che, persino l’enciclopedia telematica Wikipedia dà un primato originario di questa pratica odiosa, nelle campagne del Meridione alla nostra terra, individuando l'epicentro nella Capitanata e soprattutto nella collina brindisina e in particolare a Villa Castelli, il paese di Pietro Alò.

Un libro e un film



Va ricordato subito che, da senatore della Repubblica, Alò nelle brevissima XII Legislatura si dedicò alla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’odioso fenomeno del caporalato nelle campagne. La pubblicazione, del saggio “Il caporalato nella tarda modernità” - che è una tesi di laurea in sociologia del 2002 - con pre e postfazioni del sociologo Franco Chiarello, dell’antropologa Annamaria Rivera e del segretario regionale della CGIL Giovanni Forte, rende merito e omaggio al lavoro di questo grande testimone delle Lotte pugliesi. La cura della pubblicazione è della Fondazione a lui intitolata (http://www.fondazionepietroalo.com/) che nella mattinata di domenica 19 dicembre nel cinema Etoile di Monopoli l'ha presentata insieme al filmato “La follia degli onesti” della Oz Film sulla vita e l’impegno di questa singolare figura di militante, attivista, politico della sinistra pugliese e meridionale.
Ad memoriam: Pietro scomparve prematuramente il 13 giugno del 2005 a Roma, ancora nel vivo di un impegno che lo vedeva proiettato nel tentativo di analisi e organizzazione del nuovo precariato con il “Centro diritti del lavoro”.


Il caporalato ieri e oggi


La tesi essenziale del lavoro sul caporalato è che il fenomeno lungi dall’essere una forma arcaica di mediazione del lavoro nello sviluppo produttivo nelle campagne diventa nella fase post-fordista della produzione e nella lunga ondata del neo-liberismo quasi un paradigma della “violenta riduzione a merce del bene lavoro e nella totale subordinazione della persona e dei suoi diritti al fatto produttivo”. Le cose sono arrivate a un punto per cui oggi sono i lavoratori stagionali rumeni o polacchi, maghrebini o nigeriani, ad essere coinvolti nel girone infernale del caporalato e nel foggiano è ancora aperta un’inchiesta sulla scomparsa fisica di alcuni di loro.
Mentre a Milano a piazzale Loreto alla prim’alba viene ingaggiata a due o tre euro all’ora per più di dieci ore la manovalanza di clandestinizzati, senza permesso e senza diritti, senza identità e familiari, anche loro sogetti a forme di prepotenza, ricatto, e persino al rischio di scomparsa fisica, occultata nel caso ben lontano dai
luoghi dei cantieri abusivi dove lavorano. Siamo cioè arrivati a un neo-caporalato diffuso che si pone a valle della precarietà cronicizzata e della flessibilizzazione del lavoro a chiamata, intermittente, interinale, a noleggio, che le misure di legge hanno sanzionato frantumando in mille rivoli il mercato del lavoro. Un lavoro ormai servile quando non schiavistico che coinvolge campagne, città metropolitane, comparti della piccola industria, i servizi, il buco nero del “sommerso”. Una “condizione umana” che oltre le figure sociali storiche delle braccianti e raccoglitrici arriva a raggiungere gli ultimi della terra, gli invisibili di Rosarno e del foggiano, delle campagne neretine e del casertano.
Oltre se non ben contigue sono visibili le “vite di scarto” di cui ci parla Bauman.

La ricostruzione storica dei conflitti

Trovo notevole nel lavoro di Alò la ricostruzione storica dei conflitti dal secondo dopoguerra in poi nelle campagne pugliesi, dagli eccidi dei contadini alle lotte per gli elenchi anagrafici, dai picchetti nelle campagne e nei villaggi all’incontro con l’onda del ’68, dalla militanza della nuova sinistra meridionale alla inquietante mutazione della figura del caporale, che da ex bracciante mediatore di braccia e organizzatore capillare al servizio della proprietà agricola diviene prepotente e spesso pericoloso malavitoso, sino al tentativo di “autoregolamentarsi” con forme cooperative di servizio. Se pensiamo che ci furono persino incursioni armate di caporali nella sede della CGIL di Villa Castelli e che ci voleva del buon coraggio a fare picchetti per gli scioperi nelle strade di campagna, comprendiamo come il fondo di questa riflessione è anche nella pratica del conflitto sociale anche aspro. Notevole è anche l’inquadratura teorica dello sviluppo capitalistico nelle campagne e delle forme sociali e giuridiche del lavoro, e ampia l’apertura mentale dell’autore, ben visibile nell’apparato bibliografico di riferimento. Per Alò “il caporalato nasce come esigenza di imprese che nella compressione dei diritti della forza lavoro trovano, se non l’unica, certamente la via più facile per collocare sul mercato i loro prodotti”, e il fenomeno del caporalato “è stato deviante e costituente allo stesso tempo” delle nuove forme di lavoro servile funzionali al neo-liberismo che ha guidato la globalizzazione che appare anche come risposta iper-moderna alla crisi della modernità e che come tale viene rivendicata dai propagandisti del pensiero unico.

Nella “tarda modernità”...

Qui, oltre le tematizzazioni di analisi meridionaliste, giuslavoriste, economiche e storiche, Alò cerca di motivare la sua scelta di definire “tarda modernità” l’epoca successiva alla crisi del moderno. Questa tematizzazione merita una riflessione non metodologica né solo terminologica, perché si tratta di vedere il rapporto costitutivo tra modernità, età dei Lumi, modo di produzione, universalismo e la rottura critica di una “odiernità” che via via dal punto di vista sociologico, ma non solo, è stata definita “modernità riflessiva, o
seconda modernità” (Ulrich Beck), “modernità liquida” (Zygmunt Bauman), “tarda modernità” (Alain Touraine), o molto più diffusamente post-modernità, termine da trattare con le pinze, certamente, ma qui
nettamente rifiutato. Certo è che la crisi della modernità come razionalità, universalismo, produttivismo se non progressismo, è assai evidente e riporta in vita forme vecchie e nuove di trasformazione sociale allarmanti e distruttive, del lavoro, della dignità, del vivente, del pianeta, dei beni comuni, dello spazio pubblico, per non dire della democrazia e del modello sociale del welfare.


Silverio Tomeo

(il Paese nuovo, martedì 21 dicembre 2010:
nel titolo, il verso di una canzone di
Matteo Salvatore)

giovedì 22 dicembre 2011

... Ricordando Gino
   
Conobbi Gino nell’autunno del  ’68. Ero arrivata a Locorotondo in ottobre, fresca di movimento studentesco, con alle spalle alcune letture fondamentali - di quelle che ti aprono il cervello, dopo di che niente può essere più come prima- decisa a cominciare a vivere in coerenza con ciò che sentivo di voler essere, una comunista e, anche se non sapevo con chiarezza che cosa significasse (oggi lo so meno di ieri), ero pronta a scoprirlo.
Ero un misto di ostinata timidezza e di ingiustificato orgoglio, poco avvezza alle relazioni umane, con uno strano senso di sradicamento che ancor oggi mi accompagna,  ma mi fu facile prendere contatti con i compagni di Locorotondo, grazie soprattutto alla loro  contagiosa capacità di stare al mondo. Per primo fu  Angelo Caroli che avevo già avuto modo di conoscere a Bari durante le assemblee universitarie,  poi  Dino e Antonio Angelini, che facevano la spola tra Locorotondo e Trento, dove studiavano sociologia, e ancora Dudduzzo, Tonino Mansueto, Enzo  Cervellera, Rosangela, Lucio Piccoli, Matteo, con il suo inquietante cappottone grigio” a due piazze”. Eravamo antifascisti, contro l’autoritarismo, contro la selezione di classe, contro il sistema capitalistico, contro il revisionismo, contro l’ imperialismo americano. Per la rivoluzione. Il richiamo alla già mitica figura del “Che”, e all’idea  di militanza totale che incarnava, ci univa, penso, più come stato d’animo che come progetto politico. Volevamo esserci, cambiare il mondo, convinti che bastasse volerlo.

E credo che proprio per ultimo conobbi Gino.
La sua calma, la sua posatezza mi fecero pensare di lui che fosse più maturo degli anni che in realtà aveva, in un certo senso già risolto. I compagni mi dicevano che, pur idealmente vicino a noi, era iscritto al  Psi  e che aveva dei problemi in famiglia. Mi feci perciò l’idea che fosse un preoccupato padre di figli. Quando gli dissi di queste mie impressioni , si fece una risata a sottolineare quanto lontana fossi dalla sua verità. A fine febbraio del ’69 uscì dal partito Questa decisione colpì molto i compagni, ne galvanizzò alcuni e forse ne spaventò altri perché a quel punto la  faccenda si faceva seria: non si poteva più giocare alla  rivoluzione, bisognava impegnarsi la vita, assumersi responsabilità, organizzarsi, lavorare, lottare…
Nei mesi che seguirono Gino ed io ci vedemmo quasi ogni sera. Parlavamo di tutto, per ore. Dei nostri autori preferiti, di musica, di sport, delle nostre insicurezze, delle nostre aspirazioni.
Intanto nel “gruppo” cresceva la consapevolezza di dover superare il punto di vista del movimento studentesco, di estendere l’ intervento a figure sociali diverse,  di superare il  localismo. Sapemmo dei compagni di Ceglie e della loro inchiesta nelle campagne, ne cogliemmo subito il valore, prendemmo contatti  con loro ed in breve  demmo vita al cldp, primo passo verso quella organizzazione nazionale che, nei nostri progetti, doveva portarci al partito.

Al termine dell’anno scolastico, a fine giugno, dovetti tornare a casa. Prima della partenza, sulla strada della stazione di Locorotondo, trovai Gino che mi aspettava. Quando mi girai per salutarlo, mi accorsi che piangeva. Ero stupita ed imbarazzata e non mi riuscì di dire niente. Prevalse la mia “selvatichezza” e salii sul treno.
Nei due anni successivi, a parte qualche sporadico incontro, mantenemmo contatti epistolari che mi permisero di conoscere meglio la sua onestà intellettuale, il suo non farsi sconti, la portata di ciò che si stava giocando con la scelta del cldp, l’ intensità del suo sentire.

Gino era arrivato alla politica attraverso un vissuto personale di sofferenza fisica e morale. Non aveva ancora compiuto diciassette anni, quando -uso le sue parole- “il dolore entrò nella mia vita ad offendermi e a maturarmi” e con esso la consapevolezza che bisognava ribellarsi, migliorare,cambiare. Infatti, la malattia, i lunghi anni passati in ospedale, il contatto con una umanità sofferente e segregata ne avevano, in un certo senso, forzato il temperamento. Era diventato ordinato, prudente, metodico, tutte caratteristiche che non gli erano abituali, e aveva finito con il trasferire nei tanti interessi che coltivava  l’energia, l’intraprendenza,  il senso dell’avventura, l’azione, la lotta che gli bruciavano dentro e che gli erano negate nella pratica. Si spiegano così la sua passione per gli scacchi (“il dinamismo della scacchiera sostitutiva di tutti i dinamismi perduti,mancati,sognati”) e  per il rugby, uno strano gioco dove” per andare avanti bisogna passare la palla all’indietro”

In quegli anni trovò  nel socialismo libertario  la risposta ai suoi ideali di giustizia e di uguaglianza e pensò  che il modello scandinavo di welfare, con la realizzazione delle “belle riforme”, potesse risolvere i problemi dei poveri e degli ammalati. Ma col tempo finirono col prevalere le sue conclusioni teoriche marxiste-leniniste nelle quali si era sempre riconosciuto e applicò il suo” p tant l’accatém e p mén l vènnim”. Una maniera  colorita e un po’ cinica per dire: tagliamo i ponti col passato, rimettiamoci in gioco,  ricominciamo. Sapendo bene che la vita è una sola e a volte neanche tanto lunga.

Niente era più estraneo a Gino dell’ intellettualismo. Il marxismo era sempre stato per lui ciò che Mao indicava dover essere: uno strumento per l’azione. Non ricordo  nessun atteggiamento di autocompiacimento che lo riguardasse e che lo portasse ad indulgere nella ricerca teorica fine a se stessa o nella polemica dottrinaria. Di certo amava i libri, anche nel loro essere oggetto prezioso. Ne osservava il tipo di carta, di carattere,  di rilegatura;quei libri che nei molti anni di isolamento avevano costituito il suo principale tramite con il mondo e che  fino alla fine hanno contribuito a rendergli più bella la vita . Leggeva e studiava di tutto. Da Hemingway a Gadda, suo ultimo amore. Dai classici del marxismo- leninismo, alla storia del movimento operaio, all’ economia. Per “dare un assetto un po’ meno incasinato” -come diceva lui- alla sua disordinata cultura di autodidatta ( ad avercela!), ma soprattutto perché pensava che fosse  possibile  guardare più lontano soltanto arrampicandosi sulle spalle dei giganti, diversamente ci saremmo ritrovati nani,  forse più liberi ma sicuramente  più smarriti.
Certo, lo studio, la conoscenza teorica consolidavano il suo “odio di classe”(espressione oggi indicibile), ma ciò che li motivava profondamente erano la rabbia e l’indignazione che ogni volta provava di fronte ai crimini del capitalismo. Così ricordava il compagno Arcangelo Lisi ”Un giorno dell’ estate del ’63 eravamo insieme dal barbiere e rimanemmo soli a discutere, seduti sulla poltrona in attesa che questi rientrasse. Si parlava di plusvalore, di merce,ecc. Mi ero accorto però che era distratto, stanco. Tutt’ ad un tratto scoppiò a piangere, a piangere forte, e mi confidò tra le lacrime (qualcuno dovrà pagarle quelle lacrime) che era senza una lira e mancavano ancora una decina di giorni perché gli giungesse il mandato della pensione di 12 mila lire. Poi, asciugandosi quegli occhi terribili e buoni, mi disse:-Scusami,Gino, non dovevo lasciarmi andare. Io almeno ho la casa che ho costruito da me. C’è chi non ha nulla. Scusami:- Io ero sconvolto. Mi vergognavo di essere vivo, di essere un uomo. E rientrò il barbiere. Poi ho atteso sei lunghi anni per raccogliere anche nelle mie mani quelle lacrime che un giorno dovranno colare come lava incandescente su questa società infame. Che fa piangere”

Gino sentiva la responsabilità politica di dare risposte concrete, credibili, a chi viveva sulla propria pelle lo sfruttamento e l’emarginazione, così come aveva consapevolezza dell’enormità dei compiti che ci si era dati:contribuire all’arricchimento dell’analisi, della linea e del programma per la rivoluzione in Italia… sconfiggere il revisionismo… costruire il partito rivoluzionario come avanguardia organizzata del proletariato… Avvertiva la sproporzione tra ciò che eravamo e ciò che avremmo voluto diventare, anche a partire da sé. A riguardo, in una lettera dice:” A proposito di un “sacco di cose”, penso sul serio (lo penso da sempre) che nel cldp si faccia troppo affidamento su di me. E’ una cosa che a volte mi turba. Mi chiedo se sia possibile che non ci siano compagni di un livello più elevato del mio. Ad ogni occasione mi dico: ecco, ora capiranno quel che valgo realmente e mi scaricheranno di qualche compito.”(19/2/71). Ed ancora in un’altra lettera “l’ attività del cldp sta prendendo un andamento davvero buono, sia nelle varie situazioni che nell’iniziativa nazionale. Purtroppo si nota una carenza soggettiva che deve preoccupare i compagni:carenza nell’organizzazione e nel livello di preparazione. C’è bisogno urgente di nuove forze nell’assunzione di responsabilità, altrimenti ci sclerotizzeremo e prima o poi potremmo crollare”(10/2/71).
Nasceva da questo senso di responsabilità la sua esigenza di capire più a fondo la situazione in cui si operava attraverso un’analisi materialista. Ed era questo senso di responsabilità che a volte lo induceva a sottolineare con più forza l’aspetto oggettivo della situazione stessa, esponendolo a critiche di schematismo e di meccanicismo. Che lo facevano incazzare ma neanche più di tanto, se è vero che in una riunione di segreteria rispose a queste critiche sbottando ” e va bun, ji so’ meccanico e vu sit tutt elettricist” .E’ normale che le critiche un po’ lo amareggiassero, ma voleva tenerne conto per correggersi e migliorarsi, se gli riusciva. E soprattutto non scalfivano la stima e l’affetto che nutriva nei confronti dei compagni. Non provava rancore né sentimenti di rivalsa   Non ricordo di avergli mai sentito pronunciare commenti pesanti o giudizi negativi nei confronti di  nessuno, pur sapendo che i “nessuno”  non sempre erano all’altezza del suo stile.

Gino aveva una qualità che col tempo ho scoperto essere rara:sapeva cogliere in tutte/i,  compagne/i e non, l’aspetto migliore, ciò che  li caratterizzava e li rendeva unici, speciali ed insostituibili. E perciò riusciva ad ascoltare senza pregiudizi, senza supponenza, senza irritanti paternalismi; non era accecato dall’ idea  di dover cercare nelle  parole dei compagni l’errore o la deviazione a tutti i costi, per svalutarne il pensiero o per  sminuirne l’operato. Il suo non era liberalismo né carenza di senso critico o peggio ancora assenza di posizioni personali da difendere e far valere, semplicemente ascoltava per  imparare da tutti.

Vivere con Gino era facile, semplice .Benchè ci fossero tutte le ragioni, non mi sono mai sentita “piccola” al suo confronto. Gli ho sempre invidiato, però, la capacità di tenere insieme tutti i suoi interessi, senza che questi togliessero nulla alla priorità della passione  politica, che anzi ne usciva rafforzata, più ricca e motivata.
 Amava di uno stesso amore i ciclamini bianchi col cuore rosso che sua madre curava sul davanzale e gli scritti giovanili di Marx;
King, il cane di famiglia, e il gioco degli scacchi;
I giocatori di carte di Cezanne e la rivoluzione d’ottobre;
 La Norma e le lotte bracciantili. E a proposito della Norma, ricordo che una sera d’inverno,sfidando il freddo e la stanchezza, mi propose di andare ad assistere ad una rappresentazione che ne davano al Petruzzelli. Accettai  volentieri.. Alla fine del primo atto, però, mi addormentai sulla sua spalla. Mi svegliai verso il finale, al suono del gong azionato da Norma che chiamava i Druidi a raccolta  per confessare il suo tradimento. Non so se mi abbia mai perdonato quella defaillance, ma se l’ha fatto, è perché doveva volermi bene davvero.
 Poteva capitargli di essere preoccupato per l’attività politica, per il lavoro, per la salute, ma non permetteva che quei pensieri si trasformassero in malumori o insofferenze, capaci di rovinare  la vita a se stesso e agli altri. Sapeva di non avere tanto tempo davanti a sé e non voleva sprecarlo. Diffidava delle introspezioni psicologiche nelle quali si smarriva; sosteneva con convinzione di non avere l’inconscio e soprattutto di non ricordare di aver attraversato mai periodi di latenza. Non per questo era meno attento ai comportamenti, alle parole ed alle sensibilità di chi gli stava intorno. Lo infastidivano, per esempio, i tentativi ingenui di mia madre di giustificare ai suoi occhi le mie non eccezionali virtù di casalinga. Vi coglieva l’intenzione “inconscia” di svalorizzarmi, e proprio non lo sopportava. Era solidale, leale ed affidabile. Su di lui potevo contare.
 Per sensibilità, per formazione, per scelta gli era estranea la visione maschio-centrica che porta a vivere il ruolo femminile come marginale, subalterno e funzionale al dominio maschile. Gino stimava e rispettava le donne più di quanto le donne, spesso, riescano a fare con se stesse e fra di loro. Sapeva che il patriarcato costituisce  il più solido alleato del capitalismo nell’ oppressione e nello sfruttamento del mondo femminile ed aveva consapevolezza dell’ enorme tributo che le donne hanno pagato e continuano a pagare alla storia dell’umanità, in termini di cancellazione delle loro soggettività. E lo sapeva in quanto uomo e comunista. E come uomo e comunista ne traeva le necessarie conseguenze. Per questo pensava sinceramente che il movimento delle donne potesse svolgere un ruolo fondamentale per la loro emancipazione e liberazione. Credeva- e allora lo credevamo in tante/i- che il marxismo-leninismo potesse costituire uno strumento in più -e non una freno-  per il radicamento e la crescita politica di quel movimento.

Mi rendo conto che, detto così, Gino possa  apparire un improbabile  modello di perfezione,  noioso e stucchevole. Serioso, appunto. Per fortuna aveva anche lui, come tutti, le sue brave contraddizioni che tentava di capire e di risolvere, ma senza giustificarle o fustigarsi se non ci riusciva.  Per esempio amava Debussy e Wagner,  non si spiegava perché ma gli piacevano, e non smise mai di farseli piacere.  A volte parlava di sé con un’ ironia cattiva e divertita nello stesso tempo, che mi gelava.
 Era imprevedibile, proprio nel senso che mi sorprendeva. Con aria tranquilla diceva di aspettarlo per qualche minuto e ritornava, mostrandomi la foto delle quattro- pose-1000lire nelle quali aveva l’espressione che, secondo lui, si ritrovano   i pregiudicati quando vengono arrestati. Lo vedevi serio e compunto, lo pensavi tutto concentrato nell’ascolto di un difficile dibattito congressuale, magari pure preoccupato-e lo era davvero- ed invece, all’ improvviso, guardando furbescamente altrove, accennava quel gesto d’intesa fra noi che rimetteva tutto a posto.
 Con l’ entusiasmo e la curiosità di un bambino raccoglieva e conservava tutto ciò che per strada attirava la sua attenzione:il campanellino di un collare per gatti, la cartuccia rossa che portava le sue iniziali, un catarifrangente, una pallina di piombo ovale che ricordava il pallone da rugby. Quest’ultima  trovata nelle strade di Tarbes, nell’estate del ’77,  dove ci era capitato di assistere ad una partita amichevole tra la nazionale francese e la squadra locale,  in occasione dell’ l’addio al rugby  di un grande giocatore del quale però ho dimenticato il nome. Ed è dolorosamente strano pensare che quegli oggetti da nulla, rifiutati, dimenticati e da lui recuperati, gli siano sopravvissuti.

Gino, infatti, aveva una piccola mania: usava strappare puntigliosamente, metodicamente tutto ciò che scriveva,  dalla scaletta dell’ intervento al testo della relazione, dalla bozza dell’articolo  a quella del documento. Diceva di farlo per una questione di vigilanza. A me tutta quella vigilanza sembrava esagerata e un giorno glielo dissi. Mi rispose che sì, voleva cancellare le sue tracce, perchè niente rimanesse di lui che potesse ricordarlo. Perché nessuno dovesse soffrire, ritrovandolo nelle  sue cose. Forse non si sbagliava.


Dopo l’estate del  ’77 la sua salute cominciò a peggiorare, niente di sostanzialmente nuovo rispetto a quelle che erano le sue condizioni abituali, soltanto piccoli segnali sempre più frequenti. Lo invitavo ripetutamente a sottoporsi a degli accertamenti, ma non  voleva o non poteva assentarsi dal lavoro e, soprattutto, rifiutava l’ idea di tornare in ospedale. Infine si convinse e si accordò con il compagno Pisani per un ricovero a Padova che sarebbe avvenuto  il 25 febbraio del 78.
Dei mesi precedenti a quella data, ricordo i suoi improvvisi silenzi, il respiro affannoso, la tosse insistente, quel capodanno, l’ultimo, noi due da soli ad aspettare la mezzanotte con una bottiglietta di spumante, la sua stanchezza quando tornava a casa, gli  strani e oscuri discorsi sul nostro improbabile futuro insieme e l’espressione seria che li accompagnava.
Poi la decisione di rimanere a casa, ed io con lui, in attesa di quel 25 febbraio. La prenotazione delle cuccette. Il suo pallore e la testa che gli girava. Il medico che gli guardava le unghie violacee e gli ordinava di non partire e semmai di ricoverarsi a Bari. Il suo rifiuto perchè era il fine settimana e conosceva il funzionamento degli ospedali. La decisione  comunque di raggiungere Padova. E  quella sera il suo “Cioa ma’ detto per salutare la madre al telefono, scuotendo la testa perché non le dicessi niente, per non farla soffrire. Alle 20,30 la  frase assurda, “se passa la notte”. Poi il mio nome perché gli fossi vicina mentre i suoi occhi cambiavano colore

Qualcuno ha detto”Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza”. Sembra roba da niente, ma è tanto. E quel tanto, con Gino, io l’ho vissuto.

Non credo di sbagliarmi di molto se dico che, in quei sette anni passati insieme, eravamo riusciti a realizzare un piccolo frammento  di socialismo, l’utopia di un rapporto alla pari, dove l’altro non è vissuto come un limite al libero manifestarsi della propria individualità, come  il nemico da distruggere, dove volersi bene non è una debolezza e fidarsi dell’altro non è un cedimento ma una scelta di coraggio,dove si può provare ad essere felici senza sentirsi in colpa con il resto del mondo.
Perché penso che, in fondo, a muovere la nostra passione politica di quegli anni fosse soprattutto l’aspirazione a costruire una società senza classi, all’interno della quale si compisse una sorta di salto di qualità nell’ evoluzione della specie umana, così da rendere possibile ad ognuno di trovare le ragioni e le condizioni per la propria personale realizzazione e il delinearsi di quella “ futura umanità” fatta di soggetti eguali perché diversi e perciò più liberi.
Per tutto questo  ritengo che l’incontro di oggi, oltre ad essere un doveroso omaggio nei confronti di Gino, sia nello stesso tempo un doveroso omaggio verso quella parte migliore di noi stessi che, quarant’anni fa, ci vide uniti nel tentativo di costruire un percorso comune.

Marisa Valentini
Locorotondo,   21/02/2009                                             

sabato 17 dicembre 2011

Ricordo di Gino Palmisano





Ho conosciuto Gino Palmisano verso la metà degli anni ’50. Era arrivato a Locorotondo, da Cisternino, dove era vissuto, grosso modo fino alla terza media, insieme alla sua famiglia composta, oltre che da lui, dai suoi genitori, Pietro e Italia, e dai due fratelli Lino e Annamaria.

Il padre, già carabiniere - ma proveniente da un’umile famiglia contadina originaria delle campagne fra Locorotondo e Cisternino - all'epoca del loro arrivo a Locorotondo era da lungo tempo in pensione ed aveva trovato lavoro qui in paese presso un distributore di benzina all'inizio della via che conduce a Martina Franca.

In quel periodo Gino già frequentava  con ottimo profitto la scuola agraria Basile-Caramia di Locorotondo, mentre suo fratello Lino era iscritto da tempo al liceo Tito Livio di Martina Franca, dove aveva stretto amicizia con buona parte di coloro che poi diventeranno gli amici locorotondesi di entrambi. E fu così che, dall’oggi al domani, attraverso questa strada, Gino e Lino entrarono all'interno di un gruppo di ragazzi e di giovani locorotondesi, prevalentemente figli della piccola e media borghesia locale, la maggior parte dei quali faceva parte fin dalla fanciullezza di questo agglomerato spontaneo, poi confluito solo per qualche tempo, almeno per coloro fra noi che crescendo diventarono laici, all’interno dell’Azione Cattolica.

Si trattava di un gruppo verticale che comprendeva sei o sette fasce di età. Un gruppo che perciò, in base a questa moderata asimmetria, era solito stemperare, come qualsiasi altro gruppo verticale - mediamente sano -, la naturale rivalità, tipica dei gruppi adolescenziali, in un agone centrato sulla lealtà e sulla propensione di tutti alla cooperazione e allo scambio.

Si trattava altresì di un gruppo i cui membri avevano preso a consumare i propri giorni, verso la metà degli anni ‘50, in una sorta di luogo mentale comune, che era fatto di accanite discussioni sia sui grandi temi della vita (quella sull'esistenza di Dio era una delle più gettonate; seguivano a ruota quella di tipo estetico - incentrata sul tema “è bello ciò che è bello o è bello ciò che piace”- e quella sul suicidio. Sento ancora la voce di Gino “non vorrete mettere sullo stesso piano il suicidio di Pavese con quello della quindicenne che si è ammazzata perché suo padre non le permetteva di indossare la minigonna?”). Ma anche la musica (che per alcuni di noi era la musica classica, per altri il jazz, per altri ancora la musica leggera), lo sport erano fra i nostri interessi … giù giù fino a quel cazzeggiare su ogni cosa che - come hanno poi acutamente rappresentato Truffaut e la Comencini nei loro film - fa parte di quella palestra della crescita e della maturazione che caratterizza l’adolescenza, anche se lì per lì appare, specie se guardata dall’esterno, come una oziosa perdita di tempo (per descriverla, Winnicott usa la bellissima metafora del “dibattersi nella bonaccia”).

Si trattava infine di un gruppo che viveva - come abbiamo detto prima - fra la seconda metà degli anni ‘50 e la prima metà degli anni ‘60, in una situazione di perfetta liminarità rispetto al mondo adulto ed al paese; liminarità accentuata dal fatto che questo luogo mentale - il nostro gruppo - si trovava a vivere all’interno di un luogo, il paese, liminare esso stesso rispetto ai grandi fatti del mondo, che a quel tempo a noi giungevano ancora attraverso la radio e i giornali, più che attraverso la TV, che solo allora cominciava ad entrare nelle nostre case.

All'interno di questo gruppo Gino, in base all’età, si trovava in una posizione intermedia: non era fra i più grandi, e neanche fra i più giovani di noi.
A partire da questa posizione mediana però, nel mio ricordo, Gino prese subito ad assumere una posizione preminente, innanzitutto all'interno della conversazione: in base alla sua bontà d’animo e alla sua vivacità intellettuale – doti che condivideva con il fratello Lino e che - sempre nel mio ricordo - provenivano loro rispettivamente dal padre, e dalla madre.
Bontà d’animo, vivacità intellettuale e – aggiungerei – severità solo verso se stessi che li spingeva naturalmente a comprendere e valorizzare sempre l’interlocutore, chiunque esso fosse, ma anche ad esprimere sempre con acume e chiarezza la propria posizione.
Ma Gino primeggiava anche all'interno dello sport, ed in particolare nel calcio: attività che lo vide ben presto nella posizione di allenatore della nostra squadra (posizione, peraltro, alla quale a un certo punto fu costretto, per via della sua malattia). Allenatore della gloriosa CTG (imbattuta nel ’59!) che ben presto cominciò a scontrarsi sui campi di calcio in epiche battaglie senza pubblico con degli avversari, che presto divennero gli avversari di sempre: i Cistranìse, i fasanesi, e soprattutto i martinesi di Dell’Erba erano i nostri avversari esterni; mentre sul piano interno altrettanto epiche erano le battaglie con la Mazzola - la squadra degli operai e degli artigiani all'interno della quale ala sinistra era il nostro Dudduzzo, non ancora a quel tempo nostro amico, ma leale avversario, bravissimo attaccante, capace di mangiarsi un gol pur di non perdere una battuta del suo grande amico Nannino, il centravanti della Mazzola.

Il calcio però non era l'unico sport da noi praticato. Facevamo di tutto e di più, per la maggior parte del tempo: ad esempio per tutta l’estate praticamente ogni pomeriggio correvamo in bicicletta.
Un brutto giorno però, durante una di queste escursioni che ci portava in giro fra Locorotondo e i paesi limitrofi, Gino cadde. Cadde dalla bici e finì su di un “parete” irto di sassi appuntiti. La caduta gli procurò un vero e proprio squarcio al di sopra del labbro, ma a questa, che allora apparve come la cosa più allarmante, posero rimedio dapprima il chirurgo e poi la barba che Gino si lasciò crescere, se non ricordo male prima ancora che venisse di moda. Ciò che non fu colto subito, ma che presto richiese cure drastiche, fu il fatto che, in base all’impatto della cassa toracica con la pietra, vi fu una fortissima compromissione della sue capacità polmonari. Gino dovette ben presto rinunciare alla frequenza scolastica, allo sport, e - per lunghissimi periodi – alla maggior parte di quegli agi della vita normale, cui solitamente nessuno di noi fa caso, per essere spesso ricoverato in luoghi di cura che, specie in quell'epoca, erano delle vere e proprie istituzioni totali, chiuse per ragioni sanitarie all'esterno, anche se dotate all'interno di ogni confort.
Da quel momento Gino prese ad entrare ed uscire ciclicamente da questi luoghi, abbandonò per sempre di studi regolari e tenne per sé ogni informazione sulla propria vita là dentro, e sui perché della propria vita lì dentro. Per cui presto ci abituammo a vederlo apparire e scomparire da Locorotondo; imparammo a non chiedergli nulla sulla sua condizione e a ricomprenderlo, ad ogni suo ritorno, nel nostro tran tran fatto dei soliti nostri cazzeggi come se nulla fosse accaduto.
Si andò definendo così nel tempo una nuova modalità di vita da parte di Gino destinata ad influenzare fortemente il suo carattere, la natura dei suoi interessi, il suo metodo di studio.

Affinché voi comprendiate meglio partirò proprio da quest'ultimo punto: il suo metodo di studio: comincia in quel periodo – e a seguito dell’incidente - una modalità di studio del tutto specifica di Gino. Si tratta di una modalità incentrata su un impegno metodico e accanito che ad esempio lo porterà, dopo un lungo periodo di assenza da scuola, a tentare l'esame di seconda liceo classico (lui che si era fermato alla penultima classe di Caramia) con risultati strabilianti: otto in greco, nove latino – pensate che aveva cominciato a studiarli insieme praticamente un anno prima! - dieci, se non ricordo male,  in italiano .. con una pecca, però: un 5 in matematica che spinse assurdamente la commissione d'esame a rimandarlo a settembre. Sfortuna volle che a settembre Gino stesse male e non potesse andare a sostenere l'esame di riparazione in matematica. Risultato. Bocciato! Bocciato nonostante in tutte le altre materie avesse preso come minimo 8!
Si trattò d'uno scandalo. A nulla valse un ricorso, sollecitato da tutti noi e perfino dai nostri genitori; a nulla l'appello da noi inviato all’allora neo-eletto presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. E fu così che Gino lasciò lì per sempre gli studi classici regolari e continuò a studiare e ad approfondire per conto proprio le cose che più lo interessavano: cose che erano tantissime e che andavano dalla politica, alla letteratura, all’arte, eccetera. Ricordo il suo grande amore per Hemingway, il cui ritratto campeggiava sul suo tavolo di studio, insieme alla fotografia di quella scena di rugby che ci ha fatto rivedere Alessio e ad una foto di Belinda Lee, la bella attrice morta giovanissima in un incidente aereo: tutte icone che a mio avviso ci parlano di lui, della sua vitalità e del suo male.
Diventò un autodidatta tardivo, in grado quindi di approfittare al massimo dei gradi di libertà maggiore che l’autodidatta ha rispetto a chi compie studi regolari, senza perdersi nei vicoli secondari e sterili del sapere, come spesso capita agli autodidatti precoci.
Tardivo e onnivoro, che nelle istituzioni totali, da lui ob torto collo frequentate, si immergeva totalmente nella lettura dei suoi autori preferiti e nell'ascolto della buona musica (ricordo ancora, in una mia visita ad Arco di Trento dove lui era ricoverato, il suo letto in camerata dotato, come tutti gli altri letti del resto, di una cuffia per poter ascoltare in santa pace i programmi preferiti senza disturbare gli altri ricoverati).

Diventato più grande, lui - che era socialdemocratico (un socialdemocratico, però, che leggeva Marx!) e che già era in rapporto epistolare sia con Pellicani (un teorico della socialdemocrazia italiana, che aveva anche una rivista e che era parlamentare dello PSDI) che con Saragat - per un certo periodo visse a Ferrara e divenne segretario proprio di Pellicani, che evidentemente aveva capito che Gino, pur non avendo fatto studi regolari, – come si dice a Locorotondo – jère ‘nu pìzze de ròbbe! Constatazione che più tardi, da quanto mi risulta, ha fatto anche l’editore Laterza.

Noi non dobbiamo assolutamente lasciarsi fuorviare da queste origini politiche di Gino: innanzitutto perché egli proveniva da una famiglia cattolica (suo fratello diventò poi sacerdote) e, in quel contesto, dirsi socialdemocratico diventava già un elemento di distinzione e di rottura; in secondo luogo, come sappiamo, Gino si trovò a vivere fuori dal mondo la fine dell’adolescenza, periodo in cui molti allora cominciavano a maturare una posizione politica.
Fuori dal mondo, ed in quei luoghi separati ed ovattati in cui la maggior parte delle cose mondane dovevano apparirgli come sfuocate: ne so qualcosa io che ho avuto modo di frequentarlo – come dicevo prima - poco prima del 68 ad Arco e che discutevo con lui delle cose che andavamo facendo a Trento come FGS Psiup, vale a dire come nucleo centrale di quello che pochi mesi dopo diventerà il ‘68 trentino. Lui ascoltava, mostrava interesse, ma, anche se non lo diceva, io sapevo che il suo pensiero rimaneva distante dal mio, anche se di lì poco insieme a me, ad Antonio, a Dudduzzo e a un gruppo abbastanza consistente di studenti e di operai locorotondesi sarà fra i fondatori del Che Guevara di Locorotondo.

Subito dopo, a poco a poco, e per vie sotterranee, gli ideali del ‘68 finalmente entrarono dentro di lui, lo condussero a scollarsi dal suo ideale socialdemocratico, e si coniugarono felicemente con tutte quelle sue parti interne più profonde: politiche, pre-politiche e caratteriali che lo abitavano da sempre, dando origine a quel profilo di Gino che voi tutti avete conosciuto.
Il ‘68 rappresentò un momento di passaggio e di discontinuità per tutti i noi di quella generazione: vedere nei giorni scorsi la foto di Pietro che occupa l’università di Lecce per me è stato come ritornare per un attimo in quel clima che ci ha segnato tutti e che ha rappresentato una svolta non solo nel modo di concepire la politica, ma anche, pur fra mille contraddizioni - come molto opportunamente ci ricorda l’Annamaria nelle sue mail -, nel modo di concepire la vita.
Lo fu in particolar modo per Gino che - come del resto accadde a molti in quel periodo - fu come fulminato sulla quella vera e propria via di Damasco che fu il ‘68.

Le cose, sue e nostre, qui a Locorotondo andarono più o meno così: in occasione delle elezioni del giugno 1968, a seguito di un episodio spiacevolissimo che vide protagonisti alcuni membri del nostro fino ad allora coeso gruppo adolescenziale, avvenne una rottura, mai più rimarginata negli anni e nei decenni successivi, fra i membri laici del gruppo e quelli cattolici, che fino a quel momento non erano mai stati – diciamo così – militanti democristiani, ma che ora stavano per diventarlo.
A partire da questo episodio noi cinesi (così presero a chiamarci in paese), di fronte agli attacchi democristiani e fascisti, ricevemmo la solidarietà  di tutta la sinistra locorotondese: ricordo ancora un comizio in cui noi giovani psiuppini avevamo di fronte un gruppo di gente che era venuta lì non per ascoltarci, ma per interrompere il nostro comizio, e fra noi e loro un cordone di compagni del PCI che, a difesa del nostro diritto di parola, ci volgeva le spalle, facendoci letteralmente da scudo e metteva a tacere chiunque osasse interrompere il nostro comizio. La solidarietà e l’amicizia di un gruppo di giovani operai e artigiani, fra i quali spiccò fin dall'inizio Dudduzzo. In quel periodo Gino era via dal paese, presumo in uno dei suoi frequenti momenti di ricovero.

Poco dopo verso la fine del ’68, quando io e mio fratello Antonio tornammo da Trento, avevamo già in mente di fondare un gruppo in paese. Eravamo usciti dalla FGS Psiup, nella quale avevamo militato con mezza Trento, a partire dal fatidico 21 agosto di quell'anno, e cioè dall'invasione della Cecoslovacchia, e ci sentivamo più liberi e - diciamo così - più leggeri (se vi ricordate lo Psiup, che riceveva i soldi dalla Bulgaria (!), fu più filo-sovietico del Pci); ma soprattutto eravamo arricchiti umanamente e politicamente dall'esperienza trentina. Appena giungemmo a Locorotondo Dudduzzo e gli altri compagni ci dissero che Gino aveva nettamente cambiato la propria posizione politica.

C'incontrammo con Gino e con gli altri. Stilammo un documento introduttivo centrato sull'esigenza di fare un'inchiesta maoista, cioè trasformativa e non meramente sociologica sul paese (inchiesta dalla quale poi Gino trarrà lo spunto per la sua analisi sulla condizione dei contadini locorotondesi che tanto piacque a Pietro), e nacque il gruppo Che Guevara di Locorotondo.
Il Che Guevara fu subito attivo su vari fronti: il primo e più importante dei quali era quello della testimonianza: ciascuno di noi, con lo spessore della propria presenza, con la forza e l'autonomia della propria parola, scritta e orale, nelle iniziative e nei discorsi pubblici sottolineava la presenza di un punto di vista e di azione nuovo in paese, la presenza in esso di una nuova e più radicale opposizione.

E qui voglio aprire una parentesi. Giustamente molti di noi negli scambi via mail dei mesi scorsi hanno sottolineato, con orgoglio, il fatto che noi del Circolo Lenin abbiamo avuto una percentuale di voltagabbana molto inferiore a quella di altri gruppi della sinistra rivoluzionaria che operavano in quegli anni. Ebbene, a mio avviso, uno degli elementi che hanno determinato questo esito, combinandosi - è ovvio - con vari altri elementi, è nel fatto che in quel tempo in Puglia e nel meridione in generale, tu giovane, per quanto sprovveduto politicamente – e noi non lo eravamo! - sapevi che schierarsi e uscire fuori dalla logica delle clientele comportava il rischio di una condanna alla morte civile, rischio che nei piccoli paesi diventava una certezza. Ciò, a mio avviso, determinava come una auto-selezione a priori che spingeva nelle nostre fila solo i più radicali fra noi.

In quella sede iniziale, che paradossalmente era collocata dentro uno dei palazzi simbolo dello scempio edilizio che si stava già perpetrando in paese, ci riunivamo spesso insieme ad altri giovani che non aderivano al Che Guevara, ma  che avevano voglia di conoscere le nostre idee e condividere con noi le loro. Ricordo, ad esempio, le accanite discussioni che facevamo con le amiche locorotondesi di Mani Tese, che – come noi – sentivano le ragioni dei dannati della terra, ma che cercavano soluzioni diverse e, paradossalmente, meno palingenetiche delle nostre.
All'interno di queste presenze spiccava quella di Carmelo Giacovazzo, di Martina Franca, già docente universitario a Bari, che non entrò mai nel Che Guevara e nel Circolo Lenin, ma che - come vedremo fra un po' - fu decisivo nel determinare il nostro ingresso come Circolo Lenin, nella lotta dei coloni martinesi.
La nostra attività, come Che Guevara, oltre che su quest’opera di presenza in paese, era incentrata sul tentativo di cercare una base all'interno degli studenti della scuola agraria e, soprattutto, su quello – senz’altro più riuscito - di estendere la nostra influenza fra i giovani apprendisti che lavoravano nelle botteghe artigiane. Apprendisti  che presto divennero il nerbo del Che Guevara e, successivamente, della sede locorotondese del Circolo Lenin di Puglia.

L'incontro con il Circolo Lenin di Ceglie, prima, e l’ingresso nel Circolo Lenin di Puglia, poi, avvennero a partire da Trento: fin dal 64\ 65 si era formato a Trento fra gli studenti meridionali di sociologia quello che oggi si chiamerebbe un gruppo di lettura e di discussione sui problemi del meridione (gruppo che comprendeva - per dirvi un nome poi diventato famoso nel campo della politica italiana e della lotta mondiale contro la droga - il calabrese Pino Arlacchi; ed – oltre a lui - siciliani, pugliesi, abruzzesi, lucani e campani).
A partire dalla pubblicazione dello scritto di Pietro Mita sulla condizione dei contadini e dei braccianti del sud su “Nuovo Impegno”, e dalla notizia che stava partendo a Ceglie una dura lotta dei braccianti guidati dal Circolo Lenin locale nacque l'idea di uno di noi meridionalisti trentini in erba – l’abruzzese Claudio Renzetti, detto Ciccillo, attuale redattore di Animazione Sociale – di scendere giù a Ceglie. Antonio in quei mesi era a Locorotondo, così Ciccillo e Antonio entrarono in rapporto con il Circolo Lenin di Ceglie, e da quel momento il Circolo Lenin di Ceglie non fu solo una, pur interessantissima sigla posta sotto ad una fresca analisi della situazione contadina e bracciantile di quegli anni, ma un gruppo in carne ed ossa, peraltro vicinissimo a Locorotondo.
Cosicché presto entrammo in contatto con i compagni di Ceglie proprio mentre cominciavamo a trarre i primi frutti, sul piano della pratica, nonché della riflessione sulla pratica, di quel lavoro di inchiesta cui accennavo prima, che stava avvenendo a Locorotondo sotto la direzione e l’impulso di Gino.
Legammo subito! E pochi mesi dopo eravamo al famoso incontro fondativo del Circolo Lenin di Puglia a Ceglie, seduti con i compagni cegliesi, baresi e leccesi su quelle quattro assi poste sui blocchi di tufo in quello che ci sembrò un vero proprio tugurio, come ha ricordato on-line qualcuno nelle settimane scorse.

La trasformazione del Che Guevara in sezione locorotondese del Circolo Lenin di Puglia non comportò alcuna defezione: il gruppo locorotondese ormai era stabile, ed anche le frequenti partenze per il Nord o verso la Germania, da parte di alcuni giovani compagni costretti a migrare, non significò mai un allontanamento di alcuno di essi dalla nostra parte politica. Chi di voi ha avuto la ventura di far visita illo tempore alla seconda nostra sede locorotondese (quella posta di fronte alla Chiesa Madre del paese) avrà notato un manifesto bellissimo, affisso proprio di fronte all'ingresso, sul quale campeggiavano una enorme bandiera rossa e un semaforo acceso sul verde, con una scritta in tedesco: “Grunen licht fur rote fahne” letteralmente “luce verde per la bandiera rossa”. Ebbene quel manifesto era stato portato Locorotondo da uno dei nostri iscritti, emigrato in Germania.

Gino divenne ben presto l'animatore della sede, frequentata anche da una giovane maestra barese, Marisa, che aveva avuto un incarico a Locorotondo e che presto diventerà la compagna - come voi tutti sapete - di Gino.
La spiccata propensione di Gino a fare proseliti e, soprattutto, alla cura e alla educazione dei neo-iscritti una volta che essi erano stati condotti nel Circolo Lenin, la dolcezza del suo carattere che, direi, gli impediva di assumere atteggiamenti astiosi nei confronti sia dei compagni che degli avversari, la sua acuta intelligenza, la sua sensibilità, il suo rigore (che, come cercavo di dire all’inizio – non si esprimeva mai in una pretesa verso gli altri, ma solo come un dovere di coerenza interna), il suo sapere lo portarono ad assumere un ruolo dirigente sia all'interno della sede locorotondese che, più in generale, nell'esecutivo del Circolo Lenin di Puglia.
Dell'inchiesta maoista lui curò soprattutto la parte sui contadini. E, quando Carmelo Giacovazzo – ‘U Professòre - ci chiamò a guidare con lui la lotta dei coloni martinesi contro i padroni assenteisti, Gino partecipò, insieme a tutti noi a quella lotta che si concluse con uno sciopero e una manifestazione per le vie di Martina; manifestazione all'interno della quale ho potuto vedere con i miei occhi di quanta dignità e di quanto sobrio orgoglio siano capaci i contadini nell’espressione corale delle proprie ragioni e dei propri diritti.

Oltre che in quella direzione, la nostra attenzione al mondo contadino locorotondese, lasciati da parte i democristianissimi coltivatori diretti, allo stesso tempo attori e vittime del modello clientelare locorotondese, si concentrò sul fenomeno delle giovanissime  braccianti che, reclutate da caporali senza scrupoli e spesso sporcaccioni, raggiungevano ogni giorno il metapontino a bordo di quei famosi pullmini Volkswagen che partivano da Locorotondo e dai paesi circumvicini ancora nel cuore della notte di ogni santa giornata, sovraccarichi di ragazze fra i 15 ed i 25 anni che poi, spesso, già a trent'anni avevano la schiena rotta dalla fatica.
Ma, su questo piano, subito la nostra azione si arenò perché - come ben presto capimmo - c'erano mille lacci e laccioli che legavano la loro condizione, realmente bracciantile, a quella dei loro genitori e dei loro parenti coltivatori diretti. Lacci e laccioli che le portavano ad avere - almeno qui a Locorotondo - una visione del mondo non bracciantile, ma “contadina”; e cioè, nel nostro caso, tutta incentrata sulle mille astuzie e connivenze burocratiche in base alle quali i coltivatori diretti, diventavano braccianti, si iscrivevano negli elenchi anagrafici e godevano di tutele di cui non avrebbero dovuto godere. Un meccanismo clientelare collaudatissimo. Una oliatissima macchina di asservimento e di corruzione delle coscienze.

A questo proposito voglio raccontarvi un episodio, legato ai nostri sforzi di penetrazione nel mondo delle giovani braccianti: volevamo intervistare alcune di queste giovani e sapevamo che Narduzzo Cardone - il vecchio sarto senza cappotto del video sulla neve in cui appare anche Gino – ne conosceva qualcuna; per cui ci siamo fatti presentare - Gino ed io - ad una di esse.  Nel giorno stabilito siamo arrivati con i nostri taccuini, pronti per l'intervista. Ma si vede che Narduzzo non era stato chiaro, per cui entrando nel trullo ci siamo trovati di fronte a un giradischi acceso, alla ragazza e ai suoi genitori tutti in ghingheri, e a una ricca tavolata piena di taralli e di rosolio in bella vista: pensavano che ambissimo a conoscere la ragazza per fini matrimoniali!

L'intervento della sede locorotondese del Circolo Lenin di Puglia, guidata da Gino, continuò a concentrarsi sugli studenti e sui giovani apprendisti, ma soprattutto su quella importante opera di presenza e di testimonianza in paese cui accennavo prima: per cui ogni ricorrenza, ogni evento critico, ogni trauma nazionale ed internazionale veniva presentificato al paese, ricordato e interpretato in base alla nostra autonoma visione del mondo.
In uno di questi episodi su un ta-tse-bao alcuni reazionari locali intravidero qualcosa di grave che semplicemente non c’era. Alcuni di noi finirono per qualche tempo in galera; altri – prevalentemente i figli dei borghesi - furono denunciati a piede libero. In quel periodo io ero già su a Reggio Emilia da oltre un anno, e penso che Gino fosse già Bari. Eppure fummo denunciati anche noi: evidentemente la verità non interessava a quegli inquirenti che, attraverso le manette e le denunce, volevano far chinare la testa a chi l'aveva levata alta e fiera, ponendosi fuori dai balletti dell’arco costituzionale, come allora si diceva.
Volevano ridurre al silenzio una voce scomoda, una voce alta che era diventata capace di articolare un discorso critico, a partire da una visione del mondo che un gruppo di giovani locorotondesi aveva acquisito nella pratica e nella riflessione comune che faceva perno sulla figura, il sapere e l'esempio di Gino Palmisano.

Dino Angelini

Locorotondo, 21.2.2009

mercoledì 14 dicembre 2011

14 dicembre 1971
BRINDISI: il tentato assassinio di Donato Peccerillo
FASCISTI ALL'ATTACCO DEGLI STUDENTI



Il fatto è ricostruito nell'archivio di Pugliantagonista
http://www.pugliantagonista.it/archivio/antifa_1_peccerillo_donato.htm

BARI 27 06 2009 INIZIATIVA "PUGLIA RIBELLE" Circolo Lenin di Puglia intervento FABRIZIA P.

BARI 27 06 2009 INIZIATIVA "PUGLIA RIBELLE" Circolo Lenin di Puglia intervento DONATO PECCERILLO

Puglia ribelle
1969-2009. A quaranta anni dal Circolo Lenin di Puglia



In occasione della manifestazione così intititolata (Bari, La Vallisa, 27 giugno 2009) fu allestita una mostra fotografica a cura di Nicola Signorile e Nino Volpe, e fu proiettato un video a cura della Oz Film, per la regia di Francesco Lopez e su testo di Pasquale Martino.
Di seguito riproduciamo il testo del video, utilizzato parazialmente anche per la mostra fotografica.


Sbarcò anche in Puglia il Sessantotto. Discese anche per la linea Adriatica. 

Cambia la lunga regione nel Tacco d’Italia. Il bracciantato di Giuseppe Di Vittorio ora ha a che fare con la moderna azienda agraria capitalistica. Il boom dell’edilizia cresce col sudore dei muratori. Giovane classe operaia, metalmeccanici e chimici entrano all’alba – a Taranto, Brindisi, Bari – per i cancelli di nuove fabbriche a partecipazione statale. A Bari e Lecce si riempiono le aule universitarie, nelle scuole medie superiori aumentano gli iscritti. Una spinta di massa all’istruzione ha come protagonisti i figli della piccola borghesia, dei ceti operai e contadini.

La guerra americana in Vietnam entra negli atenei, nei paesi, nelle parrocchie, spargendo un sentimento di giustizia negata, un bisogno di liberazione e di uguaglianza.
1967 e 1968: nelle Università nasce la rivolta studentesca contro l’autoritarismo accademico. E gli studenti pensano all’incontro solidale con gli operai e i contadini. 

Dalla ribellione contro la scuola di classe denunciata dai ragazzi di don Milani,
dalla protesta  quotidiana contro i sistemi autoritari nella scuola, nei posti di lavoro, nel paese, nella famiglia,
dalla musica dei gruppi rock e dei nuovi cantautori
nasce la scoperta di se stessi e se stesse, nasce la politica come trasformazione della vita, come sogno di rivoluzione.
E per la prima volta tante ragazze scelgono di fare politica. Semplicemente per cambiare la vita.   


Gli operai pugliesi lottano per l’abbattimento delle “gabbie salariali”, che ancora impediscono a un lavoratore meridionale di guadagnare, a parità di lavoro, pari salario rispetto a un operaio del Nord. In molte fabbriche, al Petrolchimico di Brindisi, al Siderurgico di Taranto si chiede non solo un aumento salariale, ma anche democrazia, controllo operaio, tutela contro la nocività degli ambienti di lavoro.
Alle Fucine Meridionali di Bari una occupazione durata 45 giorni suscita la solidarietà del movimento studentesco.

Autunno 1968, primavera 1969: decine di migliaia di studenti medi scioperano per il diritto di assemblea, per dire no alla selezione di classe nella scuola. Spesso si uniscono ai cortei e ai picchetti degli operai.

C’è voglia di dare stabilità, organizzazione e cultura politica alle nuove forme di lotta di classe, per ottenere il vero cambiamento: la rivoluzione. Nasce così, anche in Puglia, la sinistra rivoluzionaria, che contesta la moderazione dei sindacati e del Partito comunista.
Occupare fabbriche e scuole, bloccare le strade con i sit in durante i cortei e agli ingressi dei paesi, quando c’è lo sciopero dei braccianti. Non cedere mai, non transigere.

Il Circolo Lenin di Puglia è una espressione originale di questi anni.
Il primo gruppo si costituisce a Ceglie Messapica, e nell’estate ’68 realizza un’inchiesta sul bracciantato della collina brindisina ponendo le basi per l’incontro fra braccianti e studenti rivoluzionari.
 
Il 5 giugno 1969 viene fondato a Ceglie Messapica, nel deposito di una fabbrica di laterizi, il Circolo Lenin di Puglia. Il nuovo gruppo regionale nasce dalla fusione di quattro collettivi: al gruppo di Ceglie Messapica si uniscono il Circolo Lenin di Bari, il Circolo Che Guevara di Locorotondo e un consistente nucleo del Movimento Studentesco di Lecce.
Tra i fondatori, quel giorno, Tommaso Cito, di Ceglie, operaio in una fabbrica di Taranto, e Gino Palmisano, di Locorotondo, intellettuale, che sarà uno dei principali dirigenti regionali del circolo.

Gli inizi sono duri. Mancano mezzi, risorse, quadri: si è attenuata la piena del movimento studentesco del ’68-69. Ai fondatori del Circolo Lenin sembra, al momento, di essere pochi. 

Da giugno a luglio, la Puglia è scossa dalle lotte bracciantili per il rinnovo del contratto: un primo cimento per il neonato gruppo, che interviene a sostegno delle forme di lotta più radicali. I lavoratori si battono non solo per rivendicazioni salariali, ma anche per conquistare elementi di potere: con i nuovi accordi contrattuali otterranno, fra l’altro, l’istituzione dei delegati sindacali d’azienda. Vengono occupati dagli scioperanti gli uffici di collocamento e i comuni. Si realizza per la prima volta una consultazione di massa dei lavoratori interessati.
Sempre in quella estate, a Torino alcuni compagni pugliesi incontrano i compagni che daranno vita a Potere Operaio e a Lotta Continua; nascono contatti con operai pugliesi della Fiat, che hanno partecipato ai grandi scioperi torinesi e che in estate tornano in Puglia per le ferie. La mitologia della lotta operaia si comunica da Torino al Sud.
Ed è autunno caldo anche qua. Studenti davanti alle fabbriche, che danno rinforzo e si uniscono agli operai, sono ormai una costante.

Intanto, il Circolo Lenin pubblica il suo primo opuscolo: Lotta di classe e organizzazione.
Un testo programmatico che annuncia l’ambizione di giocare un ruolo autonomo e originale nella sinistra extraparlamentare italiana.

L’originalità del Circolo Lenin di Puglia è prima di tutto nella ricerca di un legame col  mondo contadino. Non si parla solo di braccianti, ma anche di figure miste come, a Locorotondo, i coloni, e, a Conversano e nel Salento, i piccoli contadini, impoveriti e proletarizzati dal processo capitalistico in agricoltura.
A questa linea di ricerca rispondono le pubblicazioni che appariranno negli anni, come il volume Capitale, contadini, sinistra rivoluzionaria, del 1970. 
I convegni regionali sono la massima istanza decisionale del gruppo; si tengono senza una scadenza prefissata, due o tre volte l’anno, ed eleggono a scrutinio segreto la segreteria regionale.

A dicembre si svolge a Lecce il terzo convegno, cui sono presenti osservatori di gruppi non pugliesi Viene presentato e approvato un documento di analisi sulla scuola, che fissa gli obiettivi da proporre agli studenti pugliesi: sì alla gratuità degli studi, no alla dequalificazione e alla futura disoccupazione. 

Nei movimenti degli studenti medi il Circolo Lenin recluterà ragazzi e ragazze in gran numero, estendendo a macchia d’olio il numero dei militanti disponibili, soprattutto nei comuni capoluogo ma anche in molti centri di provincia. 
Fra il ’69 e il 1970 sorgono sedi e nuclei del CLdP a Brindisi, Taranto, Foggia, Ostuni, Villa Castelli, Oria, Latiano, Corsano, Gallipoli, Alezio, Casarano, Lequile, Melendugno, Taurisano, Tuglie. Compagni e compagne della Puglia, viaggiando, fanno conoscere il gruppo a Milano, in Toscana, in Calabria e in Campania.

Pietro Alò, di Villa Castelli, già leader degli studenti medi brindisini, futuro senatore della Repubblica, è organizzatore e costruttore del gruppo nei territori pugliesi, e ambasciatore del Circolo Lenin in Italia.

Ma intanto, qualcosa di nuovo e di grave è accaduto nel Paese. La bomba di Piazza Fontana a Milano inaugura la strategia della tensione e dimostra ai giovani rivoluzionari che la lotta per cambiare l’Italia non sarà né breve né indolore. E’ la “perdita dell’innocenza”. Ora bisogna attrezzarsi a respingere le provocazioni fasciste e le trame degli apparati segreti dello Stato.

L’antifascismo militante sarà un’altra caratteristica essenziale dell’impegno politico del Circolo Lenin. Anche se l’analisi politica del gruppo assegna al neofascismo una funzione sulla carta del tutto marginale, di disturbo rispetto alla fondamentale lotta per il potere operaio.
Nella pratica dell’antifascismo militante si distingueranno specialmente le sedi di Lecce e di tutto il Salento, con il contributo in primo piano di uno dei primi fondatori, Ercole Durante.

Le prime elezioni che il Circolo Lenin incontra, le regionali del 1970, non costituiscono un problema. Semplicemente, non interessano; l’indicazione politica è di “annullare la scheda con scritta rivoluzionaria”. 
Il CLdP discute la cosiddetta questione di Stalin e soprattutto la questione sindacale, per decidere se si lavorare o no all’interno dei sindacati. Alla fine deciderà per il lavoro all’interno, “là dove sono le masse”.

Autunno 1970: un’altra stagione calda di lotte studentesche. Il CLdP è in prima fila, in tutta la regione, con le parole d’ordine “Sì alla gratuità degli studi, No alla futura disoccupazione”. Un volantone, stampato all’inizio del ’71 e distribuito in tutte le città, racconta epicamente le lotte degli studenti medi.

La cultura politica del CLdP è riassunta nella formula “Costruiamo il partito di Lenin e di Mao” con la quale si concludevano quasi sempre i volantini. La tradizione e l’innovazione: Lenin, la necessità della rivoluzione; la rivoluzione culturale cinese rappresenta la critica del socialismo burocratico.
Della Cina non si conoscono ancora le contraddizioni e i lati oscuri.
La Cina significa rivolta e contestazione permanente.

Mao, ma anche i “Quaderni Rossi” ispirano il metodo dell’inchiesta, strumento di conoscenza e di intervento politico: “Chi non ha fatto inchiesta non ha diritto di parola!”.
E si fa inchiesta fra i braccianti, fra gli studenti dell’Università, fra gli operai della Montedison di Brindisi.
Quelli del CLdP guardano anche alla Questione meridionale, ma rompono lo schema tradizionale: dicono che lo sviluppo capitalistico provoca dappertutto “sottosviluppo organico”, moltiplica i Sud in tutto il mondo.

1971: l’apice della parabola del CLdP.
In estate divampa di nuovo la lotta bracciantile per il contratto. I lavoratori delle campagne ottengono ulteriori conquiste, come l’orario di lavoro settimanale di 40 ore e la trasformazione del contratto a tempo indeterminato dopo 180 giorni di lavoro presso la stressa azienda.
Ma la piaga è anche la disoccupazione. I caporali reclutano manodopera, si parte di notte per lavorare in altre regioni. Sono le donne braccianti le vittime di questo sfruttamento.

Il Circolo Lenin di Foggia, con l’aiuto di tutta l’organizzazione regionale, interviene nelle lotte a Trinitapoli, nel cuore della grande azienda agraria capitalistica.
Nasce lì la prima sede del CLdP costituita tutta di braccianti. Ma preziosa è l’esperienza di partecipazione agli scioperi, ai blocchi, ai cortei, in molti paesi della Puglia, a partire da Conversano, dove si apre la sede locale del gruppo e dove opera Pierino Grasso, il quadro contadino più preparato, stimatissimo fra i militanti del CLdP.

Si avviano anche esperienze politiche nuove, come il lavoro cosiddetto “nel sociale”: a Gallipoli il Circolo Lenin è presente nelle lotte per la casa. A Bari viene aperta una seconda sede, nella popolare Città vecchia: entra nel gruppo Michele Romito, che partecipò, da ragazzo, alla difesa del porto contro i tedeschi il 9 settembre 1943, e che per questa azione sarà insignito della medaglia d’oro nel 1975. 

Dall’agosto del ‘71 il CLdP incomincia a pubblicare un giornale, “La riscossa comunista”.
Esce con regolarità quasi periodica fino tutto il 1972. E’ un giornale di lotta, che dà notizie fitte di scioperi, manifestazioni, movimenti, episodi di conflitto, con in aggiunta la pagina internazionale, argomenti fissi il Vietnam e la Palestina. 

A Ceglie, si riuniscono in convegno nazionale numerosi gruppi della cosiddetta ”terza tendenza” – fra i quali la Lega dei Comunisti toscana e il Gruppo Gramsci milanese – nel tentativo di accelerare la costituzione di un’organizzazione unificata.  

Il 1971 è anche l’anno dell’antifascismo, contro il dilagare dello squadrismo e contro un Msi sempre più aggressivo, che ha guadagnato voti nelle elezioni amministrative e specialmente al Sud.
A novembre si svolgono manifestazioni contro la presenza del capo del Msi Almirante in numerosi centri pugliesi (fra cui Lecce, Brindisi, Ceglie). E il CLdP va anche in “trasferta” a Matera.
Ed è l’anno della mobilitazione contro la  strage di stato, in difesa di  Pietro Valpreda ingiustamente accusato. Il 12 dicembre, anniversario di Piazza Fontana, il CLdP promuove una manifestazione regionale antifascista a Bari, di cui dà notizia la prima pagina del “Manifesto” che dedica una inconsueta attenzione a un evento politico meridionale (14 dicembre 1971, Settemila giovani a Bari per una manifestazione antifascista). Il corteo si conclude in piazza Mercantile con un comizio del partigiano Paolo Pescetti, presidente del comitato Vietnam di Milano.

Ma proprio all’indomani della manifestazione di Bari, un’aggressione squadrista contro un dirigente del CLdP a Brindisi si trasforma in un vero e proprio tentativo di omicidio.
Dovranno passare sei anni, prima che i fascisti riescano ad assassinare un compagno in Puglia: Benedetto Petrone, ucciso a Bari il 28 novembre 1977.

In quello stesso periodo il CLdP organizza uno spettacolo con il Gruppo Abeliano di Bari, un collage di testi sul caso Valpreda che gira avventurosamente per la Puglia. Si prendono contatti con la Comune di Dario Fo e Franca Rame e si costituisce la Comune di Puglia; nell’ottobre ’71 la compagnia milanese porta nel Tacco d’Italia – grazie all’organizzazione del CLdP – la commedia Tutti uniti tutti insieme scusa ma quello non è il padrone?

Nel 1972 si svolgono le elezioni politiche anticipate, nelle quali si presenta per la prima volta una formazione della sinistra extraparlamentare, il Manifesto.
Il CLdP conferma l’indicazione astensionista.
Ma la svolta a destra nel paese, visibile nel governo Andreotti che esclude il partito socialista, rende attuale un interesse per la tattica politica finora trascurata dal Circolo Lenin. Si scopre il “fronte unito”, che il CL interpreta come una “unità di base” e “dal basso”.

A giugno si riunisce a Lecce l’ultimo convegno regionale, per discutere l’ormai non rinviabile passaggio all’organizzazione nazionale. L’interlocutore privilegiato è ora l’organizzazione Fronte Unito, che raggruppa compagni e compagne della Campania, della Basilicata, del Veneto e dell’Emilia.
Il 28 gennaio 1973, a Bagnoli, nasce l’OCml (Fronte Unito). E’ la data dello scioglimento del CLdP, co-fondatore della nuova organizzazione nazionale.
Una parte dei compagni e delle compagne proseguiranno questa esperienza, altri confluiranno nel Movimento Lavoratori per il Socialismo, erede del Movimento Studentesco della Statale di Milano. Altri ancora si sono già distaccati da questa vicenda, avvicinandosi al Partito comunista, continuando il loro impegno nel sindacato, in gruppi e associazioni.

Alcuni praticheranno la “lunga marcia attraverso le istituzioni”. Alcuni soffriranno il dolore e il vuoto del “riflusso”, degli ideali delusi. Altri, la maggior parte, continueranno negli anni successivi a vivere una personale “militanza di base” nella società, nei movimenti collettivi, sul posto di lavoro, nel mondo della ricerca, della cultura e delle comunicazione.
Tutti si mescoleranno a compagni provenienti da diverse esperienze politiche.
Molte parteciperanno alle lotte femministe, molte e molti al movimento del ’77, alle prese di posizione contro lo stragismo e il terrorismo, alle proteste in difesa dell’ambiente, contro le devastazioni urbanistiche e contro le centrali nucleari, alle attività di protezione rivolte ai nuovi dannati della terra, i migranti.
Si impegneranno nella scuola, nei centri sociali autogestiti o nel volontariato, saranno nelle piazze col movimento per la pace.
Si sforzeranno di testimoniare – nei luoghi di lavoro e nella società, nei microcosmi della vita quotidiana – un’idea della politica come dimensione collettiva e partecipazione, come esercizio del diritto di parola e di critica, come liberatoria demistificazione del potere.
Nell’Italia che si trasforma, nella Puglia di trepidanti primavere, nelle tante città e regioni della loro diaspora, qualunque cosa facciano, vivranno come donne e uomini liberi.

Dedicato a

Pietro Alò
Luigi Carolì Bartolotti
Carmela Caldarola
Tommaso Cito
Alessandra De Vergori
Ercole Durante
Pierino Grasso
Mimmo Lombardi
Tonio Martina
Gino Palmisano
Gianna Pitotti
Marcello Primiceri
Realino Pully
Lanfranco Saracino
Claudio Savoia
Sergio Spedicato
Enrico Sielo
Tiziana Tangolo
Aimone Verusio

“Se fosse per i risultati non rifarei nulla di quello che ho fatto o non ho fatto.
Preferirei di no.
Ma se guardo alle intenzioni è un altro discorso.
La diceria che di intenzioni è lastricato l'inferno è maligna.
Deludenti ed effimeri sono gli esiti.
I buoni propositi sono invece un polline
che magari non fiorisce mai,
ma che profuma l'aria.”
(Luigi Pintor, "La signora Kirchgessner")

Il video è disponibile al seguente link:
http://www.ostuniribelle.it/circolo-lenin-Puglia-Ostuni.html