martedì 4 settembre 2012


MOVIMENTO  &  SALENTO

Salento e movimento si debbono molto, a vicenda. La stessa costruzione di un’identità nomade e vettoriale, senza fondamenti metafisici, fatta di corpi, voci, viaggi, cambi di residenza, ricombinazioni. Tutto cominciò….quando? Quando una modesta Università privata di provincia diventa statale. Quando prima di un ’68 precoce il grottesco generale De Lorenzo, aspirante golpista con il monocolo, viene contestato in teatro, a suon di sberleffi e bombolette puzzolenti. Quando un ’68 di provincia stupisce per la quantità di coraggiose intelligenze che si mettono dal lato dell’autonomia culturale, rifiutano autoritarismo, perbenismo piccolo-borghese, bigottismo. Quando dopo le prime insolenti mazzate spesso subite dai manipoli del neosquadrismo missino, si passa a difendere attivamente i propri luoghi, spazi e corpi.

Ma quel maggio lungo e anomalo durò anche qui nel Salento più di dieci anni, e lasciò comportamenti, spazi, linee di transito culturale, depressioni e sconfitte, fughe e migrazioni. Più di qualcuno premette il pulsante dell’autodistruzione, al finire di quel ciclo di protesta. Altri ebbero la determinazione di una lotta di lunga durata, ma dopo la crisi dei linguaggi e delle militanze trovarono nuovi ambiti per muoversi. L’agire collettivo venne ripreso dai nuovi movimenti nei decenni successivi, che quando si alzarono nell’onda collettiva aiutarono a sbloccare la rimozione che era pesantemente caduta su quel ciclo di anni ribelli. Le controculture giovanili attraversarono comunità rurali di provincia, famiglie, generazioni, acclimatandosi e riscoprendo sotto la cenere del dopoguerra carboni ancora accesi. Un Vittorio Bodini europeo e inquieto scompariva a Roma nel dicembre del 1970, appena in tempo a vedere i sommovimenti del ’68,  uno che non sopportava gli engagement di partito, uno che ricordava che “generazione si diventa, e non si nasce”.

I veri segni di novità furono, per quanto eterogenei tra di loro: l’irruzione autonoma del movimento femminista, unico movimento, peraltro, a superare l’epilogo depressivo della fine degli anni ‘70. L’antifascismo militante che si organizza sin dai primi anni del decennio “caldo” per respingere odiose aggressioni squadristiche a iniziative pubbliche in Ateneo, alle sedi dei gruppi militanti, alle persone sin sotto casa (incluse le giovani donne impegnate), fuori alle scuole, alle proprie iniziative e manifestazioni. Le lotte operaie e la prima sindacalizzazione della FIAT  e della magra zona industriale. La nascita del sindacato-scuola della CGIL. La nascita del teatro underground, e dei primi musicisti e cantautori. La straordinaria parabola di un Antonio Verri che spinge a osare scrivere e fare organizzazione culturale, con riviste abborracciate ed eroiche come “Il pensionante dei Saraceni” e il “Quotidiano dei poeti”. La stessa nascita iniziale del “Quotidiano di Lecce” che rompe il monopolio democristiano della Gazzetta del Mezzogiorno e attivizza e forma nuovi giornalisti. La storia delle prime radio e TV nasce già con il peso del conformismo e della sottocultura pubblicitaria, eccezion fatta per “Radiogiovani” che infatti viene bruciata da un attentato neofascista e TeleLecce Barbano ai suoi esordi. Il  mecenatismo esistenziale  di Antonio Toma e la sua casa porto di mare.  Insomma un movimento plurale si mette in moto, aprendo spazi comuni.

Ma chi erano quegli strani studenti di massa? Una piccola colonia studiava sociologia a Trento. Altri alla Statale di Milano, o alla Sapienza a Roma, o a Padova, o a Siena….Una stabile e nutrita colonia leccese permane negli anni assai numerosa a Bologna. Tra gli intellettuali di rifermento c’era  Rina Durante: nei primo anni ’70 ci portò a conoscere una splendida Joyce Lussu. Il poeta Vittorio Pagano camminava ancora  stralunato per le vie della sua “città lunare”. Nel liceo Palmieri e nell’Università agivano degni  intellettuali di stimolo, ma pochi in verità. A volte transitava qualche bella figura in Università, come Romano Luperini, Ferruccio Rossi Landi, Umberto Cerroni, Carlo Ginzburg, Nicola De Feo, Michele Rago, Mario Socrate. Un critico e letterato come Antonio Prete insegnava a Siena, era schivo e poco legato alla sua “radice salentina” e anzi ironizzava sulla retorica delle radici. Il pittore Edoardo De Candia, provato dalla sua propria piega esistenziale, era un vero scandalo per la normalità piccolo-borghese, ma un Tarzan buono per la gioventù.  Molti pittori e grafici regalarono numerose opere alla “Comune di Puglia” di Lecce per attività di autofinanziamento. Ancora era in auge il ciclostile e manifesti e giornali di movimento venivano stampati con i caratteri mobili a piombo in vecchie tipografie, mentre le prime serigrafie erano un lusso e i giornali in offset del ’77 come i numeri di “Piccola città” e il numero unico “Sul sentiero di guerra” rappresentavano qualcosa di eccezionale dal punto di vista grafico e dell’impaginazione.

Per quanto oggi possa apparire buffo “i gruppi” della sinistra extraparlamentare erano numerosi, attivi, con una quantità di sedi nel centro storico soprattutto a ridosso dell’Ateneo. Dal gruppo storico originario del “Circolo Lenin di Puglia” al “collettivo del Manifesto”: i primi ad organizzarsi. Via via sino a quelli che si organizzarono dopo, come filiali delle organizzazioni nazionali di “Lotta Continua” e “Avanguardia Operaia”. Altri piccoli sottogruppi come “Servire il popolo”. E poi le metamorfosi successive di formazioni militanti: dal “Movimento Lavoratori per il Socialismo” a frange di “Autonomia Operaia”, sino al “Pdup per il comunismo” che riuscì persino ad esprimere un consigliere comunale. Servirono questi gruppetti militanti non a formare tanto dei partitini, quanto a formare quadri politici e sindacali, ad essere gruppi di continuità rispetto ai movimenti, sin quando durarono e sin quando non risultarono troppo  stretti anche alla risorgenza dei movimenti stessi e alla loro autorganizzazione. La sinistra storica, tra dogmatismo e pratiche compromissorie del vecchio PCI e mutazioni genetiche del PSI, spesso era soffocante, vincolava anche belle intelligenze ma le immobilizzava. Il filo-sovietismo di provincia era ostile ai nuovi movimenti, sospettoso di autonomia e ribellione, e lavorava piuttosto per un nuovo conformismo, fatto di appartenenze e obbedienze, funzionariato e disponibilità  a compromessi più o meno “storici”.

Sull’antifascismo militante e sulle sue pratiche in quel contesto di conflitto si può anche ridere, ricordando storie di comici spaventati guerrieri ed episodi paradossali, ma va ricordato che il MSI era il terzo partito in città, che erano attive le sue organizzazioni giovanili, che il neosquadrismo partiva dalla loro federazione e da altre sedi come quella del “Fronte anticomunista studentesco”, che si consumavano agguati quasi quotidiani. Quindi fu giocoforza organizzarsi e reagire, spesse volte con successo, a difesa di manifestazioni e luoghi, dei corpi e dei nuovi spazi che si andavano costruendo, e della propria “agibilità politica”, come si disse. Sino a dovere soprattutto nell’anno del 1977 osteggiare nelle piazze le adunate fasciste aggressive di Pino Rauti, sino a doversi sottoporre al rito del “battesimo del fuoco”, con feriti e arresti, in misura persino fuori-norma per una piccola città di provincia.

Cosa sono poi diventati quei ragazzi e quelle ragazze dell’Old Movement ? Più di qualcuno non c’è più, e sono tanti i nomi a venire in mente. Tanti altri sono inossidabili, defilati o ancora presenti a iniziative collettive. Qualcuno si sarà anche “accomodato”, ma non è il caso di gridare troppo allo scandalo, la vita è bella perché è varia e ha le sue belle esigenze, a volte si tratta di autonegazione e rimozione. La presenza di quella comunità senza comunità, di quella comunità di cuore, si percepisce ancora, quindi forse ancora agisce, felicemente sovrastata da attivismi e creatività affluenti, che nello spazio liscio dei movimenti danno un segno di rinascita civile come un insieme di fatti di autonomia culturale, sociale e politica.

Siverio Tomeo