MOVIMENTO &
SALENTO
Salento e movimento si debbono molto, a vicenda. La stessa
costruzione di un’identità nomade e vettoriale, senza fondamenti metafisici,
fatta di corpi, voci, viaggi, cambi di residenza, ricombinazioni. Tutto
cominciò….quando? Quando una modesta Università privata di provincia diventa
statale. Quando prima di un ’68 precoce il grottesco generale De Lorenzo,
aspirante golpista con il monocolo, viene contestato in teatro, a suon di
sberleffi e bombolette puzzolenti. Quando un ’68 di provincia stupisce per la quantità
di coraggiose intelligenze che si mettono dal lato dell’autonomia culturale,
rifiutano autoritarismo, perbenismo piccolo-borghese, bigottismo. Quando dopo
le prime insolenti mazzate spesso subite dai manipoli del neosquadrismo
missino, si passa a difendere attivamente i propri luoghi, spazi e corpi.
Ma quel maggio lungo e anomalo durò anche qui nel Salento
più di dieci anni, e lasciò comportamenti, spazi, linee di transito culturale,
depressioni e sconfitte, fughe e migrazioni. Più di qualcuno premette il
pulsante dell’autodistruzione, al finire di quel ciclo di protesta. Altri
ebbero la determinazione di una lotta di lunga durata, ma dopo la crisi dei
linguaggi e delle militanze trovarono nuovi ambiti per muoversi. L’agire
collettivo venne ripreso dai nuovi movimenti nei decenni successivi, che quando
si alzarono nell’onda collettiva aiutarono a sbloccare la rimozione che era
pesantemente caduta su quel ciclo di anni ribelli. Le controculture giovanili
attraversarono comunità rurali di provincia, famiglie, generazioni,
acclimatandosi e riscoprendo sotto la cenere del dopoguerra carboni ancora
accesi. Un Vittorio Bodini europeo e inquieto scompariva a Roma nel dicembre
del 1970, appena in tempo a vedere i sommovimenti del ’68, uno che non sopportava gli engagement di partito, uno che ricordava
che “generazione si diventa, e non si nasce”.
I veri segni di novità furono, per quanto eterogenei tra di
loro: l’irruzione autonoma del movimento femminista, unico movimento, peraltro,
a superare l’epilogo depressivo della fine degli anni ‘70. L’antifascismo
militante che si organizza sin dai primi anni del decennio “caldo” per
respingere odiose aggressioni squadristiche a iniziative pubbliche in Ateneo,
alle sedi dei gruppi militanti, alle persone sin sotto casa (incluse le giovani
donne impegnate), fuori alle scuole, alle proprie iniziative e manifestazioni.
Le lotte operaie e la prima sindacalizzazione della FIAT e della magra zona industriale. La nascita
del sindacato-scuola della CGIL. La nascita del teatro underground, e dei primi musicisti e cantautori. La straordinaria
parabola di un Antonio Verri che spinge a osare scrivere e fare organizzazione
culturale, con riviste abborracciate ed eroiche come “Il pensionante dei
Saraceni” e il “Quotidiano dei poeti”. La stessa nascita iniziale del
“Quotidiano di Lecce” che rompe il monopolio democristiano della Gazzetta del
Mezzogiorno e attivizza e forma nuovi giornalisti. La storia delle prime radio
e TV nasce già con il peso del conformismo e della sottocultura pubblicitaria,
eccezion fatta per “Radiogiovani” che infatti viene bruciata da un attentato
neofascista e TeleLecce Barbano ai suoi esordi. Il mecenatismo esistenziale di Antonio Toma e la sua casa porto di
mare. Insomma un movimento plurale si
mette in moto, aprendo spazi comuni.
Ma chi erano quegli strani studenti di massa? Una piccola
colonia studiava sociologia a Trento. Altri alla Statale di Milano, o alla
Sapienza a Roma, o a Padova, o a Siena….Una stabile e nutrita colonia leccese
permane negli anni assai numerosa a Bologna. Tra gli intellettuali di
rifermento c’era Rina Durante: nei primo
anni ’70 ci portò a conoscere una splendida Joyce Lussu. Il poeta Vittorio
Pagano camminava ancora stralunato per
le vie della sua “città lunare”. Nel liceo Palmieri e nell’Università agivano
degni intellettuali di stimolo, ma pochi
in verità. A volte transitava qualche bella figura in Università, come Romano
Luperini, Ferruccio Rossi Landi, Umberto Cerroni, Carlo Ginzburg, Nicola De
Feo, Michele Rago, Mario Socrate. Un critico e letterato come Antonio Prete
insegnava a Siena, era schivo e poco legato alla sua “radice salentina” e anzi
ironizzava sulla retorica delle radici. Il pittore Edoardo De Candia, provato
dalla sua propria piega esistenziale, era un vero scandalo per la normalità
piccolo-borghese, ma un Tarzan buono per la gioventù. Molti pittori e grafici regalarono numerose
opere alla “Comune di Puglia” di Lecce per attività di autofinanziamento.
Ancora era in auge il ciclostile e manifesti e giornali di movimento venivano
stampati con i caratteri mobili a piombo in vecchie tipografie, mentre le prime
serigrafie erano un lusso e i giornali in offset
del ’77 come i numeri di “Piccola città” e il numero unico “Sul sentiero di
guerra” rappresentavano qualcosa di eccezionale dal punto di vista grafico e
dell’impaginazione.
Per quanto oggi possa apparire buffo “i gruppi” della
sinistra extraparlamentare erano numerosi, attivi, con una quantità di sedi nel
centro storico soprattutto a ridosso dell’Ateneo. Dal gruppo storico originario
del “Circolo Lenin di Puglia” al “collettivo del Manifesto”: i primi ad
organizzarsi. Via via sino a quelli che si organizzarono dopo, come filiali
delle organizzazioni nazionali di “Lotta Continua” e “Avanguardia Operaia”.
Altri piccoli sottogruppi come “Servire il popolo”. E poi le metamorfosi
successive di formazioni militanti: dal “Movimento Lavoratori per il
Socialismo” a frange di “Autonomia Operaia”, sino al “Pdup per il comunismo”
che riuscì persino ad esprimere un consigliere comunale. Servirono questi
gruppetti militanti non a formare tanto dei partitini, quanto a formare quadri
politici e sindacali, ad essere gruppi di continuità rispetto ai movimenti, sin
quando durarono e sin quando non risultarono troppo stretti anche alla risorgenza dei movimenti
stessi e alla loro autorganizzazione. La sinistra storica, tra dogmatismo e
pratiche compromissorie del vecchio PCI e mutazioni genetiche del PSI, spesso
era soffocante, vincolava anche belle intelligenze ma le immobilizzava. Il
filo-sovietismo di provincia era ostile ai nuovi movimenti, sospettoso di
autonomia e ribellione, e lavorava piuttosto per un nuovo conformismo, fatto di
appartenenze e obbedienze, funzionariato e disponibilità a compromessi più o meno “storici”.
Sull’antifascismo militante e sulle sue pratiche in quel
contesto di conflitto si può anche ridere, ricordando storie di comici
spaventati guerrieri ed episodi paradossali, ma va ricordato che il MSI era il
terzo partito in città, che erano attive le sue organizzazioni giovanili, che
il neosquadrismo partiva dalla loro federazione e da altre sedi come quella del
“Fronte anticomunista studentesco”, che si consumavano agguati quasi
quotidiani. Quindi fu giocoforza organizzarsi e reagire, spesse volte con
successo, a difesa di manifestazioni e luoghi, dei corpi e dei nuovi spazi che
si andavano costruendo, e della propria “agibilità politica”, come si disse.
Sino a dovere soprattutto nell’anno del 1977 osteggiare nelle piazze le adunate
fasciste aggressive di Pino Rauti, sino a doversi sottoporre al rito del
“battesimo del fuoco”, con feriti e arresti, in misura persino fuori-norma per
una piccola città di provincia.
Cosa sono poi diventati quei ragazzi e quelle ragazze dell’Old Movement ? Più di qualcuno non c’è
più, e sono tanti i nomi a venire in mente. Tanti altri sono inossidabili,
defilati o ancora presenti a iniziative collettive. Qualcuno si sarà anche
“accomodato”, ma non è il caso di gridare troppo allo scandalo, la vita è bella
perché è varia e ha le sue belle esigenze, a volte si tratta di autonegazione e
rimozione. La presenza di quella comunità senza comunità, di quella comunità di
cuore, si percepisce ancora, quindi forse ancora agisce, felicemente sovrastata
da attivismi e creatività affluenti, che nello spazio liscio dei movimenti
danno un segno di rinascita civile come un insieme di fatti di autonomia
culturale, sociale e politica.
Siverio Tomeo