giovedì 18 febbraio 2016

I ragazzi della Puglia ribelle


I quaranta anni del CLDP


Era detto semplicemente “il Circolo Lenin”, almeno in Puglia, l’organizzazione militante della Nuova Sinistra nata a ridosso del ’68 pugliese. Era rapidamente cresciuta attorno alle università di Bari e Lecce, poi nelle scuole medie, quindi nei centri di piccoli paesi dove erano sorti circoli dai nomi come “Che Guevara” e “Camillo Torres”, a volte con apporti di pendolari delle università di Trento e di Roma. Certo è che nel giugno del 1969, quarant’anni fa tra pochi mesi, a Ceglie Messapica, ariosa collina brindisina, nasce questa organizzazione della sinistra “rivoluzionaria extraparlamentare”, di ispirazione leninista, come dice già il nome, e maoista in quanto a vulgata del marxismo e per il metodo dell’inchiesta  popolare, che gli fa vedere nei braccianti e nei contadini senza terra il soggetto meridionale del riscatto e del cambiamento nei rapporti di forza e di potere tra le classi. In quell’anno nascevano o stavano per nascere le organizzazioni maggiori della Nuova sinistra, da Lotta Continua al Manifesto, da Avanguardia Operaia a Potere Operaio, sino al Movimento studentesco di Milano. Tanto era originale il Circolo Lenin di Puglia, per essere un’organizzazione regionale, meridionale, con capacità di analisi e produzione sulle tematiche delle campagne, che nel panorama della “sinistra rivoluzionaria”veniva ben visto e accettato, con corteggiamenti e tentativi di annessione. Erano nel frattempo numerosi i rapporti nazionali con i “gruppi” e i circoli locali, da Milano a Roma, dalla Toscana all’Emilia. Per molto tempo qualche ex leader studentesco pugliese, presto accucciatosi nel PCI per malinteso realismo ed effettivo carrierismo, parlò poi del Circolo Lenin come di un “gruppuscolo” velleitario e volontaristico. Ora la vecchia sinistra storica non esiste più, quella proiezione di potenza del vecchio PCI nell’URSS e nel “campo socialista”, è ora solo un ricordo sbiadito. Nei quasi quattro anni di esistenza nelle fila del Circolo Lenin transitò qualche migliaio tra ragazze e ragazzi, con diverse centinaia di militanti stabili, decine e decine di sedi, una forte presenza soprattutto a  Bari, Lecce e Brindisi, ma con sedi anche a Taranto e Foggia, oltre che numerosi piccoli e grandi centri pugliesi. L’intervento davanti i cancelli delle grosse fabbriche di Brindisi di Taranto, e nella striminzita zona industriale del leccese, dai picchetti duri all’inchiesta, dagli scioperi ai cortei, fu immediata. La partecipazione alle lotte bracciantili era scontata e competente. Già nel 1969 si costruirono organismi collettivi nelle scuole medie. Nei primi anni ’70 nasce a Brindisi il Movimento femminista brindisino, poi a Lecce il Movimento autonomo delle donne (MAD) e a Bari il collettivo Donne in lotta: sono gli albori del nuovo movimento femminista. In breve quell’esperienza fu costitutiva di movimenti collettivi, di un nuovo spazio politico, di elaborazione culturale e autoproduzione, di una prima sindacalizzazione di massa. Lotte sociali, occupazione di case riuscite, organizzazioni di lotte dei disoccupati, attività di quartiere. Come tutta la Nuova sinistra degli anni ’70 il Circolo Lenin fu un fatto enorme di autonomia culturale e organizzativa. La scelta dell’antifascismo militante fu dettata, come nel resto del paese, dalla necessità della difesa degli spazi pubblici democratici, ma anche delle sedi e dei corpi, visto l’attivismo squadristico in Puglia di settori del Movimento sociale e delle sue organizzazioni giovanili, a volte ancora al soldo degli agrari, e comunque determinati con ripetute aggressioni e violenze ad aprirsi lo spazio per la destra anticostituzionale.

Il CLdP nasce a ridosso del ’68 pugliese, nel giugno del 1969, quando si formano i “gruppi” della Nuova sinistra italiana degli anni ’70. Non proviene quindi da quel “movimento marxista-leninista” del ’66 che fu una sequela di ideologismi, settarismi, stalinismi in varie salse, scissionismi, rapporti strani e cangianti con i paesi del socialismo reale, sin con i loro livelli statuali e diplomatici, per intenderci. Né aveva nulla a che fare con il grottesco e liturgico maoismo di “Servire il popolo” di Aldo Brandirali. Il Circolo Lenin di Puglia era a tutti gli effetti una organizzazione pugliese e meridionale (cellula romana, simpatie varie, anche in Basilicata, studenti all’università di Trento, emigranti al Nord e all’estero) della Nuova sinistra, con il problema fondante e strategico del rapporto conflittuale, di autonomia culturale ideologica e organizzativa con la Sinistra storica, massimamente con il PCI. Quindi il rapporto con il resto della sinistra extraparlamentare, con la sinistra del PSI, con la collocazione internazionale tra l’immaginario e la realtà (Nuova sinistra europea, organizzazioni palestinesi, dissidenze della Sinistra storica). Tutta la prima parte soltanto del lungo ciclo dal ’68 a tutti gli anni ’70 fu attraversata dal Circolo Lenin, e poi quel conflitto culminerà nel movimento del ’77 anche in Puglia dove avemmo con Benedetto Petrone a Bari l’ultimo ragazzo ucciso di quell’anno. Quindi Moro e il dopo-Moro, il culmine del terrorismo di sinistra, la diaspora della Nuova sinistra, il tentativo di Democrazia proletaria come cartello della Nuova sinistra e poi il PDUP per il comunismo per chi non si era ancora stancato. Ma molti di quei quadri, nonostante sbarramenti e diffidenze, trovarono spazio nel sindacato, nelle professioni, nella sinistra ufficiale, nelle assemblee elettive, nel teatro, nel giornalismo, nella cultura, nell’associazionismo e nel volontariato.

Silverio Tomeo

Il Quotidiano, Lecce, 25 giugno 2009

martedì 4 settembre 2012


MOVIMENTO  &  SALENTO

Salento e movimento si debbono molto, a vicenda. La stessa costruzione di un’identità nomade e vettoriale, senza fondamenti metafisici, fatta di corpi, voci, viaggi, cambi di residenza, ricombinazioni. Tutto cominciò….quando? Quando una modesta Università privata di provincia diventa statale. Quando prima di un ’68 precoce il grottesco generale De Lorenzo, aspirante golpista con il monocolo, viene contestato in teatro, a suon di sberleffi e bombolette puzzolenti. Quando un ’68 di provincia stupisce per la quantità di coraggiose intelligenze che si mettono dal lato dell’autonomia culturale, rifiutano autoritarismo, perbenismo piccolo-borghese, bigottismo. Quando dopo le prime insolenti mazzate spesso subite dai manipoli del neosquadrismo missino, si passa a difendere attivamente i propri luoghi, spazi e corpi.

Ma quel maggio lungo e anomalo durò anche qui nel Salento più di dieci anni, e lasciò comportamenti, spazi, linee di transito culturale, depressioni e sconfitte, fughe e migrazioni. Più di qualcuno premette il pulsante dell’autodistruzione, al finire di quel ciclo di protesta. Altri ebbero la determinazione di una lotta di lunga durata, ma dopo la crisi dei linguaggi e delle militanze trovarono nuovi ambiti per muoversi. L’agire collettivo venne ripreso dai nuovi movimenti nei decenni successivi, che quando si alzarono nell’onda collettiva aiutarono a sbloccare la rimozione che era pesantemente caduta su quel ciclo di anni ribelli. Le controculture giovanili attraversarono comunità rurali di provincia, famiglie, generazioni, acclimatandosi e riscoprendo sotto la cenere del dopoguerra carboni ancora accesi. Un Vittorio Bodini europeo e inquieto scompariva a Roma nel dicembre del 1970, appena in tempo a vedere i sommovimenti del ’68,  uno che non sopportava gli engagement di partito, uno che ricordava che “generazione si diventa, e non si nasce”.

I veri segni di novità furono, per quanto eterogenei tra di loro: l’irruzione autonoma del movimento femminista, unico movimento, peraltro, a superare l’epilogo depressivo della fine degli anni ‘70. L’antifascismo militante che si organizza sin dai primi anni del decennio “caldo” per respingere odiose aggressioni squadristiche a iniziative pubbliche in Ateneo, alle sedi dei gruppi militanti, alle persone sin sotto casa (incluse le giovani donne impegnate), fuori alle scuole, alle proprie iniziative e manifestazioni. Le lotte operaie e la prima sindacalizzazione della FIAT  e della magra zona industriale. La nascita del sindacato-scuola della CGIL. La nascita del teatro underground, e dei primi musicisti e cantautori. La straordinaria parabola di un Antonio Verri che spinge a osare scrivere e fare organizzazione culturale, con riviste abborracciate ed eroiche come “Il pensionante dei Saraceni” e il “Quotidiano dei poeti”. La stessa nascita iniziale del “Quotidiano di Lecce” che rompe il monopolio democristiano della Gazzetta del Mezzogiorno e attivizza e forma nuovi giornalisti. La storia delle prime radio e TV nasce già con il peso del conformismo e della sottocultura pubblicitaria, eccezion fatta per “Radiogiovani” che infatti viene bruciata da un attentato neofascista e TeleLecce Barbano ai suoi esordi. Il  mecenatismo esistenziale  di Antonio Toma e la sua casa porto di mare.  Insomma un movimento plurale si mette in moto, aprendo spazi comuni.

Ma chi erano quegli strani studenti di massa? Una piccola colonia studiava sociologia a Trento. Altri alla Statale di Milano, o alla Sapienza a Roma, o a Padova, o a Siena….Una stabile e nutrita colonia leccese permane negli anni assai numerosa a Bologna. Tra gli intellettuali di rifermento c’era  Rina Durante: nei primo anni ’70 ci portò a conoscere una splendida Joyce Lussu. Il poeta Vittorio Pagano camminava ancora  stralunato per le vie della sua “città lunare”. Nel liceo Palmieri e nell’Università agivano degni  intellettuali di stimolo, ma pochi in verità. A volte transitava qualche bella figura in Università, come Romano Luperini, Ferruccio Rossi Landi, Umberto Cerroni, Carlo Ginzburg, Nicola De Feo, Michele Rago, Mario Socrate. Un critico e letterato come Antonio Prete insegnava a Siena, era schivo e poco legato alla sua “radice salentina” e anzi ironizzava sulla retorica delle radici. Il pittore Edoardo De Candia, provato dalla sua propria piega esistenziale, era un vero scandalo per la normalità piccolo-borghese, ma un Tarzan buono per la gioventù.  Molti pittori e grafici regalarono numerose opere alla “Comune di Puglia” di Lecce per attività di autofinanziamento. Ancora era in auge il ciclostile e manifesti e giornali di movimento venivano stampati con i caratteri mobili a piombo in vecchie tipografie, mentre le prime serigrafie erano un lusso e i giornali in offset del ’77 come i numeri di “Piccola città” e il numero unico “Sul sentiero di guerra” rappresentavano qualcosa di eccezionale dal punto di vista grafico e dell’impaginazione.

Per quanto oggi possa apparire buffo “i gruppi” della sinistra extraparlamentare erano numerosi, attivi, con una quantità di sedi nel centro storico soprattutto a ridosso dell’Ateneo. Dal gruppo storico originario del “Circolo Lenin di Puglia” al “collettivo del Manifesto”: i primi ad organizzarsi. Via via sino a quelli che si organizzarono dopo, come filiali delle organizzazioni nazionali di “Lotta Continua” e “Avanguardia Operaia”. Altri piccoli sottogruppi come “Servire il popolo”. E poi le metamorfosi successive di formazioni militanti: dal “Movimento Lavoratori per il Socialismo” a frange di “Autonomia Operaia”, sino al “Pdup per il comunismo” che riuscì persino ad esprimere un consigliere comunale. Servirono questi gruppetti militanti non a formare tanto dei partitini, quanto a formare quadri politici e sindacali, ad essere gruppi di continuità rispetto ai movimenti, sin quando durarono e sin quando non risultarono troppo  stretti anche alla risorgenza dei movimenti stessi e alla loro autorganizzazione. La sinistra storica, tra dogmatismo e pratiche compromissorie del vecchio PCI e mutazioni genetiche del PSI, spesso era soffocante, vincolava anche belle intelligenze ma le immobilizzava. Il filo-sovietismo di provincia era ostile ai nuovi movimenti, sospettoso di autonomia e ribellione, e lavorava piuttosto per un nuovo conformismo, fatto di appartenenze e obbedienze, funzionariato e disponibilità  a compromessi più o meno “storici”.

Sull’antifascismo militante e sulle sue pratiche in quel contesto di conflitto si può anche ridere, ricordando storie di comici spaventati guerrieri ed episodi paradossali, ma va ricordato che il MSI era il terzo partito in città, che erano attive le sue organizzazioni giovanili, che il neosquadrismo partiva dalla loro federazione e da altre sedi come quella del “Fronte anticomunista studentesco”, che si consumavano agguati quasi quotidiani. Quindi fu giocoforza organizzarsi e reagire, spesse volte con successo, a difesa di manifestazioni e luoghi, dei corpi e dei nuovi spazi che si andavano costruendo, e della propria “agibilità politica”, come si disse. Sino a dovere soprattutto nell’anno del 1977 osteggiare nelle piazze le adunate fasciste aggressive di Pino Rauti, sino a doversi sottoporre al rito del “battesimo del fuoco”, con feriti e arresti, in misura persino fuori-norma per una piccola città di provincia.

Cosa sono poi diventati quei ragazzi e quelle ragazze dell’Old Movement ? Più di qualcuno non c’è più, e sono tanti i nomi a venire in mente. Tanti altri sono inossidabili, defilati o ancora presenti a iniziative collettive. Qualcuno si sarà anche “accomodato”, ma non è il caso di gridare troppo allo scandalo, la vita è bella perché è varia e ha le sue belle esigenze, a volte si tratta di autonegazione e rimozione. La presenza di quella comunità senza comunità, di quella comunità di cuore, si percepisce ancora, quindi forse ancora agisce, felicemente sovrastata da attivismi e creatività affluenti, che nello spazio liscio dei movimenti danno un segno di rinascita civile come un insieme di fatti di autonomia culturale, sociale e politica.

Siverio Tomeo

venerdì 23 dicembre 2011

Volantone del Circolo Lenin di Puglia
sulle lotte degli studenti, 1970






Padrone mio, te vojo arrecchire...


Pubblicato per l’editrice barese WIP Edizioni, il saggio “Il caporalato nella tarda modernità” di Pietro Alò è un’occasione di dibattito pubblico sulla questione del lavoro sempre più ridotto a merce e sempre più sospinto nella marginalità del lavoro servile e senza diritti.

Il caporalato e il lavoro servile nella crisi della modernità, questa è la tesi da cui ri/partire, guardando al caporalato in terra di Puglia, fenomeno culturalmente radicato, tanto che, persino l’enciclopedia telematica Wikipedia dà un primato originario di questa pratica odiosa, nelle campagne del Meridione alla nostra terra, individuando l'epicentro nella Capitanata e soprattutto nella collina brindisina e in particolare a Villa Castelli, il paese di Pietro Alò.

Un libro e un film



Va ricordato subito che, da senatore della Repubblica, Alò nelle brevissima XII Legislatura si dedicò alla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’odioso fenomeno del caporalato nelle campagne. La pubblicazione, del saggio “Il caporalato nella tarda modernità” - che è una tesi di laurea in sociologia del 2002 - con pre e postfazioni del sociologo Franco Chiarello, dell’antropologa Annamaria Rivera e del segretario regionale della CGIL Giovanni Forte, rende merito e omaggio al lavoro di questo grande testimone delle Lotte pugliesi. La cura della pubblicazione è della Fondazione a lui intitolata (http://www.fondazionepietroalo.com/) che nella mattinata di domenica 19 dicembre nel cinema Etoile di Monopoli l'ha presentata insieme al filmato “La follia degli onesti” della Oz Film sulla vita e l’impegno di questa singolare figura di militante, attivista, politico della sinistra pugliese e meridionale.
Ad memoriam: Pietro scomparve prematuramente il 13 giugno del 2005 a Roma, ancora nel vivo di un impegno che lo vedeva proiettato nel tentativo di analisi e organizzazione del nuovo precariato con il “Centro diritti del lavoro”.


Il caporalato ieri e oggi


La tesi essenziale del lavoro sul caporalato è che il fenomeno lungi dall’essere una forma arcaica di mediazione del lavoro nello sviluppo produttivo nelle campagne diventa nella fase post-fordista della produzione e nella lunga ondata del neo-liberismo quasi un paradigma della “violenta riduzione a merce del bene lavoro e nella totale subordinazione della persona e dei suoi diritti al fatto produttivo”. Le cose sono arrivate a un punto per cui oggi sono i lavoratori stagionali rumeni o polacchi, maghrebini o nigeriani, ad essere coinvolti nel girone infernale del caporalato e nel foggiano è ancora aperta un’inchiesta sulla scomparsa fisica di alcuni di loro.
Mentre a Milano a piazzale Loreto alla prim’alba viene ingaggiata a due o tre euro all’ora per più di dieci ore la manovalanza di clandestinizzati, senza permesso e senza diritti, senza identità e familiari, anche loro sogetti a forme di prepotenza, ricatto, e persino al rischio di scomparsa fisica, occultata nel caso ben lontano dai
luoghi dei cantieri abusivi dove lavorano. Siamo cioè arrivati a un neo-caporalato diffuso che si pone a valle della precarietà cronicizzata e della flessibilizzazione del lavoro a chiamata, intermittente, interinale, a noleggio, che le misure di legge hanno sanzionato frantumando in mille rivoli il mercato del lavoro. Un lavoro ormai servile quando non schiavistico che coinvolge campagne, città metropolitane, comparti della piccola industria, i servizi, il buco nero del “sommerso”. Una “condizione umana” che oltre le figure sociali storiche delle braccianti e raccoglitrici arriva a raggiungere gli ultimi della terra, gli invisibili di Rosarno e del foggiano, delle campagne neretine e del casertano.
Oltre se non ben contigue sono visibili le “vite di scarto” di cui ci parla Bauman.

La ricostruzione storica dei conflitti

Trovo notevole nel lavoro di Alò la ricostruzione storica dei conflitti dal secondo dopoguerra in poi nelle campagne pugliesi, dagli eccidi dei contadini alle lotte per gli elenchi anagrafici, dai picchetti nelle campagne e nei villaggi all’incontro con l’onda del ’68, dalla militanza della nuova sinistra meridionale alla inquietante mutazione della figura del caporale, che da ex bracciante mediatore di braccia e organizzatore capillare al servizio della proprietà agricola diviene prepotente e spesso pericoloso malavitoso, sino al tentativo di “autoregolamentarsi” con forme cooperative di servizio. Se pensiamo che ci furono persino incursioni armate di caporali nella sede della CGIL di Villa Castelli e che ci voleva del buon coraggio a fare picchetti per gli scioperi nelle strade di campagna, comprendiamo come il fondo di questa riflessione è anche nella pratica del conflitto sociale anche aspro. Notevole è anche l’inquadratura teorica dello sviluppo capitalistico nelle campagne e delle forme sociali e giuridiche del lavoro, e ampia l’apertura mentale dell’autore, ben visibile nell’apparato bibliografico di riferimento. Per Alò “il caporalato nasce come esigenza di imprese che nella compressione dei diritti della forza lavoro trovano, se non l’unica, certamente la via più facile per collocare sul mercato i loro prodotti”, e il fenomeno del caporalato “è stato deviante e costituente allo stesso tempo” delle nuove forme di lavoro servile funzionali al neo-liberismo che ha guidato la globalizzazione che appare anche come risposta iper-moderna alla crisi della modernità e che come tale viene rivendicata dai propagandisti del pensiero unico.

Nella “tarda modernità”...

Qui, oltre le tematizzazioni di analisi meridionaliste, giuslavoriste, economiche e storiche, Alò cerca di motivare la sua scelta di definire “tarda modernità” l’epoca successiva alla crisi del moderno. Questa tematizzazione merita una riflessione non metodologica né solo terminologica, perché si tratta di vedere il rapporto costitutivo tra modernità, età dei Lumi, modo di produzione, universalismo e la rottura critica di una “odiernità” che via via dal punto di vista sociologico, ma non solo, è stata definita “modernità riflessiva, o
seconda modernità” (Ulrich Beck), “modernità liquida” (Zygmunt Bauman), “tarda modernità” (Alain Touraine), o molto più diffusamente post-modernità, termine da trattare con le pinze, certamente, ma qui
nettamente rifiutato. Certo è che la crisi della modernità come razionalità, universalismo, produttivismo se non progressismo, è assai evidente e riporta in vita forme vecchie e nuove di trasformazione sociale allarmanti e distruttive, del lavoro, della dignità, del vivente, del pianeta, dei beni comuni, dello spazio pubblico, per non dire della democrazia e del modello sociale del welfare.


Silverio Tomeo

(il Paese nuovo, martedì 21 dicembre 2010:
nel titolo, il verso di una canzone di
Matteo Salvatore)

giovedì 22 dicembre 2011

... Ricordando Gino
   
Conobbi Gino nell’autunno del  ’68. Ero arrivata a Locorotondo in ottobre, fresca di movimento studentesco, con alle spalle alcune letture fondamentali - di quelle che ti aprono il cervello, dopo di che niente può essere più come prima- decisa a cominciare a vivere in coerenza con ciò che sentivo di voler essere, una comunista e, anche se non sapevo con chiarezza che cosa significasse (oggi lo so meno di ieri), ero pronta a scoprirlo.
Ero un misto di ostinata timidezza e di ingiustificato orgoglio, poco avvezza alle relazioni umane, con uno strano senso di sradicamento che ancor oggi mi accompagna,  ma mi fu facile prendere contatti con i compagni di Locorotondo, grazie soprattutto alla loro  contagiosa capacità di stare al mondo. Per primo fu  Angelo Caroli che avevo già avuto modo di conoscere a Bari durante le assemblee universitarie,  poi  Dino e Antonio Angelini, che facevano la spola tra Locorotondo e Trento, dove studiavano sociologia, e ancora Dudduzzo, Tonino Mansueto, Enzo  Cervellera, Rosangela, Lucio Piccoli, Matteo, con il suo inquietante cappottone grigio” a due piazze”. Eravamo antifascisti, contro l’autoritarismo, contro la selezione di classe, contro il sistema capitalistico, contro il revisionismo, contro l’ imperialismo americano. Per la rivoluzione. Il richiamo alla già mitica figura del “Che”, e all’idea  di militanza totale che incarnava, ci univa, penso, più come stato d’animo che come progetto politico. Volevamo esserci, cambiare il mondo, convinti che bastasse volerlo.

E credo che proprio per ultimo conobbi Gino.
La sua calma, la sua posatezza mi fecero pensare di lui che fosse più maturo degli anni che in realtà aveva, in un certo senso già risolto. I compagni mi dicevano che, pur idealmente vicino a noi, era iscritto al  Psi  e che aveva dei problemi in famiglia. Mi feci perciò l’idea che fosse un preoccupato padre di figli. Quando gli dissi di queste mie impressioni , si fece una risata a sottolineare quanto lontana fossi dalla sua verità. A fine febbraio del ’69 uscì dal partito Questa decisione colpì molto i compagni, ne galvanizzò alcuni e forse ne spaventò altri perché a quel punto la  faccenda si faceva seria: non si poteva più giocare alla  rivoluzione, bisognava impegnarsi la vita, assumersi responsabilità, organizzarsi, lavorare, lottare…
Nei mesi che seguirono Gino ed io ci vedemmo quasi ogni sera. Parlavamo di tutto, per ore. Dei nostri autori preferiti, di musica, di sport, delle nostre insicurezze, delle nostre aspirazioni.
Intanto nel “gruppo” cresceva la consapevolezza di dover superare il punto di vista del movimento studentesco, di estendere l’ intervento a figure sociali diverse,  di superare il  localismo. Sapemmo dei compagni di Ceglie e della loro inchiesta nelle campagne, ne cogliemmo subito il valore, prendemmo contatti  con loro ed in breve  demmo vita al cldp, primo passo verso quella organizzazione nazionale che, nei nostri progetti, doveva portarci al partito.

Al termine dell’anno scolastico, a fine giugno, dovetti tornare a casa. Prima della partenza, sulla strada della stazione di Locorotondo, trovai Gino che mi aspettava. Quando mi girai per salutarlo, mi accorsi che piangeva. Ero stupita ed imbarazzata e non mi riuscì di dire niente. Prevalse la mia “selvatichezza” e salii sul treno.
Nei due anni successivi, a parte qualche sporadico incontro, mantenemmo contatti epistolari che mi permisero di conoscere meglio la sua onestà intellettuale, il suo non farsi sconti, la portata di ciò che si stava giocando con la scelta del cldp, l’ intensità del suo sentire.

Gino era arrivato alla politica attraverso un vissuto personale di sofferenza fisica e morale. Non aveva ancora compiuto diciassette anni, quando -uso le sue parole- “il dolore entrò nella mia vita ad offendermi e a maturarmi” e con esso la consapevolezza che bisognava ribellarsi, migliorare,cambiare. Infatti, la malattia, i lunghi anni passati in ospedale, il contatto con una umanità sofferente e segregata ne avevano, in un certo senso, forzato il temperamento. Era diventato ordinato, prudente, metodico, tutte caratteristiche che non gli erano abituali, e aveva finito con il trasferire nei tanti interessi che coltivava  l’energia, l’intraprendenza,  il senso dell’avventura, l’azione, la lotta che gli bruciavano dentro e che gli erano negate nella pratica. Si spiegano così la sua passione per gli scacchi (“il dinamismo della scacchiera sostitutiva di tutti i dinamismi perduti,mancati,sognati”) e  per il rugby, uno strano gioco dove” per andare avanti bisogna passare la palla all’indietro”

In quegli anni trovò  nel socialismo libertario  la risposta ai suoi ideali di giustizia e di uguaglianza e pensò  che il modello scandinavo di welfare, con la realizzazione delle “belle riforme”, potesse risolvere i problemi dei poveri e degli ammalati. Ma col tempo finirono col prevalere le sue conclusioni teoriche marxiste-leniniste nelle quali si era sempre riconosciuto e applicò il suo” p tant l’accatém e p mén l vènnim”. Una maniera  colorita e un po’ cinica per dire: tagliamo i ponti col passato, rimettiamoci in gioco,  ricominciamo. Sapendo bene che la vita è una sola e a volte neanche tanto lunga.

Niente era più estraneo a Gino dell’ intellettualismo. Il marxismo era sempre stato per lui ciò che Mao indicava dover essere: uno strumento per l’azione. Non ricordo  nessun atteggiamento di autocompiacimento che lo riguardasse e che lo portasse ad indulgere nella ricerca teorica fine a se stessa o nella polemica dottrinaria. Di certo amava i libri, anche nel loro essere oggetto prezioso. Ne osservava il tipo di carta, di carattere,  di rilegatura;quei libri che nei molti anni di isolamento avevano costituito il suo principale tramite con il mondo e che  fino alla fine hanno contribuito a rendergli più bella la vita . Leggeva e studiava di tutto. Da Hemingway a Gadda, suo ultimo amore. Dai classici del marxismo- leninismo, alla storia del movimento operaio, all’ economia. Per “dare un assetto un po’ meno incasinato” -come diceva lui- alla sua disordinata cultura di autodidatta ( ad avercela!), ma soprattutto perché pensava che fosse  possibile  guardare più lontano soltanto arrampicandosi sulle spalle dei giganti, diversamente ci saremmo ritrovati nani,  forse più liberi ma sicuramente  più smarriti.
Certo, lo studio, la conoscenza teorica consolidavano il suo “odio di classe”(espressione oggi indicibile), ma ciò che li motivava profondamente erano la rabbia e l’indignazione che ogni volta provava di fronte ai crimini del capitalismo. Così ricordava il compagno Arcangelo Lisi ”Un giorno dell’ estate del ’63 eravamo insieme dal barbiere e rimanemmo soli a discutere, seduti sulla poltrona in attesa che questi rientrasse. Si parlava di plusvalore, di merce,ecc. Mi ero accorto però che era distratto, stanco. Tutt’ ad un tratto scoppiò a piangere, a piangere forte, e mi confidò tra le lacrime (qualcuno dovrà pagarle quelle lacrime) che era senza una lira e mancavano ancora una decina di giorni perché gli giungesse il mandato della pensione di 12 mila lire. Poi, asciugandosi quegli occhi terribili e buoni, mi disse:-Scusami,Gino, non dovevo lasciarmi andare. Io almeno ho la casa che ho costruito da me. C’è chi non ha nulla. Scusami:- Io ero sconvolto. Mi vergognavo di essere vivo, di essere un uomo. E rientrò il barbiere. Poi ho atteso sei lunghi anni per raccogliere anche nelle mie mani quelle lacrime che un giorno dovranno colare come lava incandescente su questa società infame. Che fa piangere”

Gino sentiva la responsabilità politica di dare risposte concrete, credibili, a chi viveva sulla propria pelle lo sfruttamento e l’emarginazione, così come aveva consapevolezza dell’enormità dei compiti che ci si era dati:contribuire all’arricchimento dell’analisi, della linea e del programma per la rivoluzione in Italia… sconfiggere il revisionismo… costruire il partito rivoluzionario come avanguardia organizzata del proletariato… Avvertiva la sproporzione tra ciò che eravamo e ciò che avremmo voluto diventare, anche a partire da sé. A riguardo, in una lettera dice:” A proposito di un “sacco di cose”, penso sul serio (lo penso da sempre) che nel cldp si faccia troppo affidamento su di me. E’ una cosa che a volte mi turba. Mi chiedo se sia possibile che non ci siano compagni di un livello più elevato del mio. Ad ogni occasione mi dico: ecco, ora capiranno quel che valgo realmente e mi scaricheranno di qualche compito.”(19/2/71). Ed ancora in un’altra lettera “l’ attività del cldp sta prendendo un andamento davvero buono, sia nelle varie situazioni che nell’iniziativa nazionale. Purtroppo si nota una carenza soggettiva che deve preoccupare i compagni:carenza nell’organizzazione e nel livello di preparazione. C’è bisogno urgente di nuove forze nell’assunzione di responsabilità, altrimenti ci sclerotizzeremo e prima o poi potremmo crollare”(10/2/71).
Nasceva da questo senso di responsabilità la sua esigenza di capire più a fondo la situazione in cui si operava attraverso un’analisi materialista. Ed era questo senso di responsabilità che a volte lo induceva a sottolineare con più forza l’aspetto oggettivo della situazione stessa, esponendolo a critiche di schematismo e di meccanicismo. Che lo facevano incazzare ma neanche più di tanto, se è vero che in una riunione di segreteria rispose a queste critiche sbottando ” e va bun, ji so’ meccanico e vu sit tutt elettricist” .E’ normale che le critiche un po’ lo amareggiassero, ma voleva tenerne conto per correggersi e migliorarsi, se gli riusciva. E soprattutto non scalfivano la stima e l’affetto che nutriva nei confronti dei compagni. Non provava rancore né sentimenti di rivalsa   Non ricordo di avergli mai sentito pronunciare commenti pesanti o giudizi negativi nei confronti di  nessuno, pur sapendo che i “nessuno”  non sempre erano all’altezza del suo stile.

Gino aveva una qualità che col tempo ho scoperto essere rara:sapeva cogliere in tutte/i,  compagne/i e non, l’aspetto migliore, ciò che  li caratterizzava e li rendeva unici, speciali ed insostituibili. E perciò riusciva ad ascoltare senza pregiudizi, senza supponenza, senza irritanti paternalismi; non era accecato dall’ idea  di dover cercare nelle  parole dei compagni l’errore o la deviazione a tutti i costi, per svalutarne il pensiero o per  sminuirne l’operato. Il suo non era liberalismo né carenza di senso critico o peggio ancora assenza di posizioni personali da difendere e far valere, semplicemente ascoltava per  imparare da tutti.

Vivere con Gino era facile, semplice .Benchè ci fossero tutte le ragioni, non mi sono mai sentita “piccola” al suo confronto. Gli ho sempre invidiato, però, la capacità di tenere insieme tutti i suoi interessi, senza che questi togliessero nulla alla priorità della passione  politica, che anzi ne usciva rafforzata, più ricca e motivata.
 Amava di uno stesso amore i ciclamini bianchi col cuore rosso che sua madre curava sul davanzale e gli scritti giovanili di Marx;
King, il cane di famiglia, e il gioco degli scacchi;
I giocatori di carte di Cezanne e la rivoluzione d’ottobre;
 La Norma e le lotte bracciantili. E a proposito della Norma, ricordo che una sera d’inverno,sfidando il freddo e la stanchezza, mi propose di andare ad assistere ad una rappresentazione che ne davano al Petruzzelli. Accettai  volentieri.. Alla fine del primo atto, però, mi addormentai sulla sua spalla. Mi svegliai verso il finale, al suono del gong azionato da Norma che chiamava i Druidi a raccolta  per confessare il suo tradimento. Non so se mi abbia mai perdonato quella defaillance, ma se l’ha fatto, è perché doveva volermi bene davvero.
 Poteva capitargli di essere preoccupato per l’attività politica, per il lavoro, per la salute, ma non permetteva che quei pensieri si trasformassero in malumori o insofferenze, capaci di rovinare  la vita a se stesso e agli altri. Sapeva di non avere tanto tempo davanti a sé e non voleva sprecarlo. Diffidava delle introspezioni psicologiche nelle quali si smarriva; sosteneva con convinzione di non avere l’inconscio e soprattutto di non ricordare di aver attraversato mai periodi di latenza. Non per questo era meno attento ai comportamenti, alle parole ed alle sensibilità di chi gli stava intorno. Lo infastidivano, per esempio, i tentativi ingenui di mia madre di giustificare ai suoi occhi le mie non eccezionali virtù di casalinga. Vi coglieva l’intenzione “inconscia” di svalorizzarmi, e proprio non lo sopportava. Era solidale, leale ed affidabile. Su di lui potevo contare.
 Per sensibilità, per formazione, per scelta gli era estranea la visione maschio-centrica che porta a vivere il ruolo femminile come marginale, subalterno e funzionale al dominio maschile. Gino stimava e rispettava le donne più di quanto le donne, spesso, riescano a fare con se stesse e fra di loro. Sapeva che il patriarcato costituisce  il più solido alleato del capitalismo nell’ oppressione e nello sfruttamento del mondo femminile ed aveva consapevolezza dell’ enorme tributo che le donne hanno pagato e continuano a pagare alla storia dell’umanità, in termini di cancellazione delle loro soggettività. E lo sapeva in quanto uomo e comunista. E come uomo e comunista ne traeva le necessarie conseguenze. Per questo pensava sinceramente che il movimento delle donne potesse svolgere un ruolo fondamentale per la loro emancipazione e liberazione. Credeva- e allora lo credevamo in tante/i- che il marxismo-leninismo potesse costituire uno strumento in più -e non una freno-  per il radicamento e la crescita politica di quel movimento.

Mi rendo conto che, detto così, Gino possa  apparire un improbabile  modello di perfezione,  noioso e stucchevole. Serioso, appunto. Per fortuna aveva anche lui, come tutti, le sue brave contraddizioni che tentava di capire e di risolvere, ma senza giustificarle o fustigarsi se non ci riusciva.  Per esempio amava Debussy e Wagner,  non si spiegava perché ma gli piacevano, e non smise mai di farseli piacere.  A volte parlava di sé con un’ ironia cattiva e divertita nello stesso tempo, che mi gelava.
 Era imprevedibile, proprio nel senso che mi sorprendeva. Con aria tranquilla diceva di aspettarlo per qualche minuto e ritornava, mostrandomi la foto delle quattro- pose-1000lire nelle quali aveva l’espressione che, secondo lui, si ritrovano   i pregiudicati quando vengono arrestati. Lo vedevi serio e compunto, lo pensavi tutto concentrato nell’ascolto di un difficile dibattito congressuale, magari pure preoccupato-e lo era davvero- ed invece, all’ improvviso, guardando furbescamente altrove, accennava quel gesto d’intesa fra noi che rimetteva tutto a posto.
 Con l’ entusiasmo e la curiosità di un bambino raccoglieva e conservava tutto ciò che per strada attirava la sua attenzione:il campanellino di un collare per gatti, la cartuccia rossa che portava le sue iniziali, un catarifrangente, una pallina di piombo ovale che ricordava il pallone da rugby. Quest’ultima  trovata nelle strade di Tarbes, nell’estate del ’77,  dove ci era capitato di assistere ad una partita amichevole tra la nazionale francese e la squadra locale,  in occasione dell’ l’addio al rugby  di un grande giocatore del quale però ho dimenticato il nome. Ed è dolorosamente strano pensare che quegli oggetti da nulla, rifiutati, dimenticati e da lui recuperati, gli siano sopravvissuti.

Gino, infatti, aveva una piccola mania: usava strappare puntigliosamente, metodicamente tutto ciò che scriveva,  dalla scaletta dell’ intervento al testo della relazione, dalla bozza dell’articolo  a quella del documento. Diceva di farlo per una questione di vigilanza. A me tutta quella vigilanza sembrava esagerata e un giorno glielo dissi. Mi rispose che sì, voleva cancellare le sue tracce, perchè niente rimanesse di lui che potesse ricordarlo. Perché nessuno dovesse soffrire, ritrovandolo nelle  sue cose. Forse non si sbagliava.


Dopo l’estate del  ’77 la sua salute cominciò a peggiorare, niente di sostanzialmente nuovo rispetto a quelle che erano le sue condizioni abituali, soltanto piccoli segnali sempre più frequenti. Lo invitavo ripetutamente a sottoporsi a degli accertamenti, ma non  voleva o non poteva assentarsi dal lavoro e, soprattutto, rifiutava l’ idea di tornare in ospedale. Infine si convinse e si accordò con il compagno Pisani per un ricovero a Padova che sarebbe avvenuto  il 25 febbraio del 78.
Dei mesi precedenti a quella data, ricordo i suoi improvvisi silenzi, il respiro affannoso, la tosse insistente, quel capodanno, l’ultimo, noi due da soli ad aspettare la mezzanotte con una bottiglietta di spumante, la sua stanchezza quando tornava a casa, gli  strani e oscuri discorsi sul nostro improbabile futuro insieme e l’espressione seria che li accompagnava.
Poi la decisione di rimanere a casa, ed io con lui, in attesa di quel 25 febbraio. La prenotazione delle cuccette. Il suo pallore e la testa che gli girava. Il medico che gli guardava le unghie violacee e gli ordinava di non partire e semmai di ricoverarsi a Bari. Il suo rifiuto perchè era il fine settimana e conosceva il funzionamento degli ospedali. La decisione  comunque di raggiungere Padova. E  quella sera il suo “Cioa ma’ detto per salutare la madre al telefono, scuotendo la testa perché non le dicessi niente, per non farla soffrire. Alle 20,30 la  frase assurda, “se passa la notte”. Poi il mio nome perché gli fossi vicina mentre i suoi occhi cambiavano colore

Qualcuno ha detto”Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza”. Sembra roba da niente, ma è tanto. E quel tanto, con Gino, io l’ho vissuto.

Non credo di sbagliarmi di molto se dico che, in quei sette anni passati insieme, eravamo riusciti a realizzare un piccolo frammento  di socialismo, l’utopia di un rapporto alla pari, dove l’altro non è vissuto come un limite al libero manifestarsi della propria individualità, come  il nemico da distruggere, dove volersi bene non è una debolezza e fidarsi dell’altro non è un cedimento ma una scelta di coraggio,dove si può provare ad essere felici senza sentirsi in colpa con il resto del mondo.
Perché penso che, in fondo, a muovere la nostra passione politica di quegli anni fosse soprattutto l’aspirazione a costruire una società senza classi, all’interno della quale si compisse una sorta di salto di qualità nell’ evoluzione della specie umana, così da rendere possibile ad ognuno di trovare le ragioni e le condizioni per la propria personale realizzazione e il delinearsi di quella “ futura umanità” fatta di soggetti eguali perché diversi e perciò più liberi.
Per tutto questo  ritengo che l’incontro di oggi, oltre ad essere un doveroso omaggio nei confronti di Gino, sia nello stesso tempo un doveroso omaggio verso quella parte migliore di noi stessi che, quarant’anni fa, ci vide uniti nel tentativo di costruire un percorso comune.

Marisa Valentini
Locorotondo,   21/02/2009